Crepuscolo nel Deserto

Un commento all'ultimo libro di Matthew Simmons

Di Ugo Bardi
Luglio 2005

L’ultima opera di Matthew Simmons, “Twilight in the Desert" (Crepuscolo nel Deserto), è un tentativo di rispondere a una domanda che è vitale per la sopravvivenza del mondo che conosciamo: quanto petrolio si può ancora estrarre dai pozzi sauditi?

Le risorse energetiche del mondo industrializzato dipendono in modo cruciale dal petrolio dell’Arabia Saudita che è il principale produttore mondiale; quello che ha garantito (finora) i rifornimenti anche in momenti difficili come nel caso delle guerre del golfo, della crisi iraniana, e altri eventi drammatici del passato recente. Oggi, con il declino generale della produzione di petrolio dalle regioni fuori dal golfo persico, la produzione saudita diventa sempre più importante e la si ritiene l’unica possibilità di continuare a soddisfare la crescente domanda mondiale. Se la produzione saudita non riuscisse a crescere in proporzione alla domanda oppure, peggio, dovesse cominciare a declinare, ci troveremmo in una situazione critica. Di fronte a questa prospettiva, quella che fu chiamata la “Grande crisi del petrolio” degli anni ’70 potrebbe rivelarsi un petardo in confronto a una bomba nucleare.

La risposta data dai sauditi stessi alla domanda è molto ottimistica. I politici e i dirigenti dell’azienda che gestisce i giacimenti, la Saudi-Aramco, dichiarano in coro che le riserve sono ancora abbondanti e non ci sarà nessun problema a espandere la produzione da qui al 2030, almeno. L’analisi di Simmons, invece, indica una situazione molto diversa.

Il libro di Simmons è un trattato approfondito che descrive in dettaglio la storia e la situazione attuale dei giacimenti sauditi. E’ un testo molto tecnico, che richiede un certo sforzo di attenzione da parte del lettore. Sforzo che, tuttavia, è ampiamente ripagato da una visione complessiva che non si trova in nessun altro testo facilmente accessibile al pubblico. Quello che emerge è una situazione di una complessità spaventosa. Simmons fa giustizia del mito del beduino ignorante che scava un buco per terra (o se lo fa scavare dai suoi tecnici occidentali) e da quel buco esce petrolio in abbondanza. In oltre 50 anni di gestione della provincia petrolifera più abbondante del pianeta, i tecnici della Saudi ARAMCO (più dell’80% cittadini sauditi) hanno dovuto imparare come gestire l'estrazione in funzione della specifica geologia locale. Le opinioni sul loro livello di competenza sono varie e si riportano casi di pozzi mal gestiti e rovinati per uno sfruttamento troppo rapido. Tuttavia, i dati riportati da Simmons indicano che l'Aramco gestisce una tecnologia sofisticata che richiede una notevole competenza. Per esempio, I programmi di simulazione dei giacimenti sviluppati dall’ARAMCO sembrerebbero essere alla pari delle più sofisticate applicazioni occidentali in altri campi. Simmons cita anche tutta una serie di tecniche avanzate in uso standard in Saudi Aramco, per esempio meccanismi di perforazione come il Top Drive e perforazioni multidirezionali della "terza generazione"

Tanta sofisticazione e tanto lavoro è indizio che non tutto è facile in quel paradiso del petrolio che è l’Arabia Saudita. L’analisi delle tecnologie messe in opera negli ultimi decenni per mantenere e incrementare la produzione indica uno sforzo crescente che implica l’uso di quanto di più sofisticato esiste nel campo dell’estrazione del petrolio. Anche qui, c’è un mito sfatato, quello che l’estrazione del petrolio dai giacimenti Sauditi sia estremamente a buon mercato. Una volta, sicuramente lo era e tuttora costa probabilmente meno che in quasi tutte le altre zone del pianeta. Tuttavia, di fronte ai costi e la complessità delle tecnologie utilizzati, dobbiamo classificare quella del “petrolio saudita a due dollari al barile” come un’altra delle tante leggende urbane che girano per il pianeta.

Qui, arriviamo al punto cruciale: quanto petrolio potrà ancora produrre l’Arabia saudita? E sarà veramente possibile aumentare la produzione in modo da sfatare la crescente domanda mondiale? Secondo l’analisi di Simmons, è evidente che il grande pozzo di Ghawar e gli altri pozzi in esercizio sono oggi come vecchie signore in continua necessità di cure e attenzioni. Riescono ancora a produrre ai livelli di una volta, ma al prezzo di sforzi sempre maggiori. Prima o poi, queste vecchie signore finiranno per andare in pensione. Non solo, ma secondo Simmons esiste il rischio concreto che questi sforzi portino a un rapido e inaspettato declino della produzione. Quanto ad aumentarla ulteriormente, sembra veramente al di là di ogni ragionevole speranza

E’ possibile che esistano grandi riserve non sfruttate nella penisola arabica? Anche qui, ci sono ulteriori miti da sfatare: quello che ampie zone della penisola non siano state esplorate oppure che i Sauditi si siano tenuti in riserva dei pozzi inutilizzati. I dati riportati da Simmons indicano come la Saudi ARAMCO abbia fatto ogni sforzo possibile per esplorare il territorio sotto la sua giurisdizione. I risultati sono stati scarsi e restano oggi soltanto aree marginali da esplorare. Ci sono dei pozzi tenuti in riserva, ma non si parla di quantità immense e comunque non del petrolio "light" che è stato fino ad oggi la caratteristica del petrolio saudita. Non si possono escludere colpi di fortuna che portino scoperte inaspettate ma Simmons fa un paragone calcistico dicendo che è come essere “All’ottantesimo minuto e sotto di due goal”.

Quindi, potremmo essere in una situazione molto critica e non a torto l’analisi di Simmons ha fatto molto rumore ed è stata definita "esplosiva". Ci sono molti elementi di incertezza nell’analisi e, come per tutte le cose, ampi margini di dubbio. Può darsi che la produzione saudita cominci a declinare in tempi molto brevi, come pure è possibile riesca a mantersi sugli attuali livelli ancora per parecchi anni. Comunque sia, ci stiamo approssimando al punto di non ritorno. Se la produzione saudita dovesse iniziare un brusco declino, ci troveremmo privi di soluzioni sotitutive adeguate. La carenza di combustibili necessari per il trasporto avrebbe pesanti conseguenze economiche, ovvero aumenti di prezzo del petrolio ben oltre i massimi della prima grande crisi del petrolio degli anni ‘70.

Gli sconvolgimenti economici dovuti alla nuova crisi non potrebbero non portare a sconvolgimenti politici. Si parla spesso dell’instabilità politica del governo Saudita. Tuttavia qualsiasi governo sia al potere a Ryad, sarebbe comunque costretto a vendere il petrolio (se ne ha da vendere) ai paesi industrializzati, considerando che l’Arabia Saudita ha una popolazione che si approssima ai 30 milioni ed è quasi priva di risorse alimentari proprie. Più gravi potrebbero essere gli sconvolgimenti geopolitici mondiali. Richard Lowry, scrivendo su “The New Republic” nel 2001 aveva proposto di invadere l’Arabia Saudita per “prendersi il petrolio”. Ma di invadere l’Arabia Saudita si parla già dal tempo delle crisi del petrolio degli anni ’70. Recentemente, Gerald Posner ha scritto un libro intitolato “I segreti del Reame” in cui descrive come il governo Saudita avrebbe costruito un complesso sistema di esplosivi e materiali radioattivi destinato a rendere inservibile i giacimenti in caso di invasione. E' quasi certo che si tratta solo di una leggenda, ma è indicativa di una situazione critica. Comunque sia, i possibili invasori si troverebbero in difficoltà a gestire un sistema estrattivo che potrebbe essere danneggiato anche con metodi molto semplici. In ogni caso, se i pozzi sono davvero prossimi al declino è già troppo tardi e invadere l’Arabia Saudita non servirebbe a niente.

Quindi, la migliore strategia per gestire l’inevitabile declino dei pozzi Sauditi è la cooperazione. Anche qui, in effetti, ci sono dei miti da sfatare, in particolare quello degli arabi “cattivi” e decisi ad negare il petrolio ai nemici Occidentali. L’Arabia Saudita ha sempre fatto il possibile per soddisfare la sete petrolifera dei paesi industrializzati. Forse anche troppo, secondo Simmons, che sostiene che aver forzato la produzione in certi casi potrebbe portare a un rapido declino che avrebbe invece potuto essere rimandato di molti anni se si fosse deciso di produrre di meno. L’analisi di Simmons, in effetti, è in contrasto con alcuni luoghi comuni diffusi in Occidente. Per esempio, la crisi petrolifera del 1974 è normalmente attribuita a fattori politici e all’embargo dei paesi OPEC contro l’occidente. Simmons la attribuisce invece alla necessità di rallentare lo sfruttamento dei pozzi Sauditi che stavano producendo a un ritmo insostenibile che minacciava di danneggiarli irreparabilmente.

Alla fine dei conti, quello che emerge dalla lettura del libro di Simmons è principalmente una visione dello complessità del nostro mondo. I fattori che decidono gli eventi sono, sembrerebbe, ben diversi dall’immagine che vediamo in TV, dove tutto sembra diviso nettamente: buoni e cattivi, bianco e nero, giusto e sbagliato. Sembrerebbe invece che il futuro tutti noi dipenderà in gran parte da come un gruppo di tecnici Sauditi riuscirà a gestire la lenta salita della tavola d'acqua delle viscere del pozzo di Ghawar, acqua che loro stessi hanno pompato all’interno per mantenere la pressione del petrolio. Quando da Ghawar non si potrà estrarre più che acqua salata, il mondo sarà molto diverso da quello di oggi. Secondo Simmons, non dovremo aspettare molto per toglierci la curiosità di vedere come sarà.