Il cavallo di San Francesco: biocombustibili per i veicoli stradali?

Questo articolo discute la possibilità di utilizzare oli vegetali (colza o altro) o i loro derivati come combustibili per i veicoli stradali. Questa possibilità è stata sollevata recentemente in relazione agli aumenti dei prezzi dei combustibili derivati dal petrolio. Purtroppo, questa idea si scontra con i limiti fisici della possibilità di coltivare biocombustibili in quantità sufficiente per alimentare l’attuale flotta di inefficienti veicoli privati. Nella pratica, i biocombustibili possono essere utili come un ausilio a un sistema di trasporto più efficiente, ma non possono neanche lontanamente essere pensati come sostitutivi dei combustibili fossili nelle stesse quantità e agli stessi prezzi.

Ugo Bardi – Aprile 2005
Dipartimento di Chimica, Università di Firenze
ASPO association for the study of peak oil

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www.aspoitalia.net


Nei "Flintstones" i protagonisti viaggiano su automobili di pietra, una cosa che troviamo divertente per via della sua ovvia assurdità. Se nel film avessimo visto i Flintstones spostarsi a cavallo, probabilmente non lo avremmo trovato altrettanto divertente e assurdo, anzi, forse lo avremmo trovato quasi logico. In realtà, tuttavia, i nostri antenati (dall’età della pietra fino a tempi recenti) avevano ben poche possibilità di usare mezzi di locomozione che non fossero il "cavallo di San Francesco", ovvero le loro stesse gambe. I cavalli non sono mai stati un mezzo di trasporto di massa e non hanno mai raggiunto il livello di diffusione che ha raggiunto l’automobile nella seconda metà del secolo XX in Occidente. Per fare un esempio, negli Stati Uniti, il massimo storico del numero di cavalli è stato di circa uno per 100 persone verso il 1910. Mezzo secolo dopo, negli Stati Uniti c’era un’automobile ogni 3 persone.

Cos’era che rendeva più difficile la diffusione dei cavalli di quanto non fosse quella delle automobili? Certo, i cavalli hanno molti inconvenienti rispetto alle automobili: vanno più piano, non possono fare più di una trentina di chilometri al giorno e altre cose. Tuttavia, la "manifattura" di un cavallo non costa nulla; chiunque ha una cavalla possiede anche una piccola fabbrica di cavalli. Non solo, ma un cavallo è anche più efficiente di un’automobile. Con 30.000 KJoule (7400 kcal) di biada, un cavallo non dovrebbe aver problemi a fare 30 km in un giorno, o anche di più. Un litro di benzina, con il quale si fanno molto meno di 30 km in macchina, corrisponde a 42.000 kjoule.

Ma, nelle società agricole, il surplus alimentare è piccolo, e per questa ragione il "biocombustibile" (biada o avena) costa caro. Così, solo i ricchi possono permettersi un cavallo come mezzo di trasporto personale. Nella società dei combustibili fossili, la nostra, i carburanti creati dai combustibili fossili costano invece pochissimo in confronto all’energia che contengono. Di conseguenza possiamo permetterci di sprecarli e così facendo abbiamo creato l’attuale sistema di trasporti di massa basato su veicoli individuali pesanti e inefficienti.

O, perlomeno, potevamo permetterci di sprecare combustibile fino a qualche tempo fa. Oggi, gli aumenti del prezzo del petrolio sono un sintomo del progressivo esaurimento dei giacimenti. I tempi d’oro del petrolio a buon mercato non torneranno più e, di conseguenza, si cercano più o meno disperatamente soluzioni che in qualche modo promettano di risolvere il problema. Si è molto parlato ultimamente dell’olio vegetale come combustibile per motori diesel. L’argomento è stato oggetto di un messaggio che si è diffuso su internet nell’Aprile del 2005, attribuito (falsamente) a Beppe Grillo. "Le macchine diesel funzionano benissimo con l’olio di colza", dice il messaggio, "si risparmia, non si inquina, e in più si fa un dispetto al ministro Siniscalco".

Ahimé, le cose non sono così semplici. Anche ammettendo che gli oli di semi vadano bene per i motori diesel, cosa assai discutibile, "nutrire" le automobili con biocombustibili significa in un certo modo ritornare all’epoca dei cavalli: il problema è il costo. E’ vero che un litro di olio di colza comprato al supermercato costa oggi meno di un litro di gasolio comprato al distributore, ma questo è soltanto un effetto delle tasse sui combustibili.

Per via delle tasse, mettere olio di semi nel serbatoio potrebbe anche essere un risparmio nel breve termine (a parte buttare via il motore dopo un po’). Ma, per quanto il ministro Siniscalco possa stare antipatico a qualcuno, forse c’è anche bisogno di ricordare che le tasse che paghiamo non sono un furto ma qualcosa che serve a far funzionare i servizi dello stato: scuole, ospedali, sussidi agli anziani e ai disccupati e tutto il resto. Tutte cosette senza le quali la nostra vita sarebbe anche più dura di quanto non lo è già.

Ma, a parte la questione tasse e l’imbroglio ai danni dello stato, converrebbe sotto qualche punto di vista usare l’olio vegetale al posto del gasolio come combustibile? Al primo colpo, ci sono degli argomenti a favore. L’olio vegetale inquina di meno, non aumenta la concentrazione atmosferica di CO2 e di conseguenza non genera effetto serra, non ci costringe ad essere dipendenti da produttori lontani e inaffidabili.

Tutto vero ma, come in tante altre cose, le idee belle ed eleganti hanno una tendenza ad avere la peggio nel confronto con una realtà bruttina e sgraziata. Finche sono in pochi a fare la furbata di buttare un po’ di olio di semi nel motore, non ci sono particolari conseguenze negative (a parte per i motori stessi), ma cosa succederebbe se tutti decidessero di usare combustibili vegetali per le loro automobili?

Ci sono, evidentemente, dei piccoli problemi con l’idea di vedere torme di automobilisti che danno l’assalto ai supermercati per svuotare gli scaffali di olio vegetale. Non ci sono distributori di olio di semi lungo le strade e – soprattutto – la produzione attuale di oli di semi non sarebbe neanche lontanamente sufficiente per rimpiazzare i derivati del petrolio.

L’Europa Occidentale intera produce oggi circa 10 milioni di tonnellate di oli vegetali all’anno. Vi sembra tanto? Tutto è relativo: tenete presente che l’Italia da sola usa circa 100 milioni di tonnellate di petrolio all’anno (700 milioni di barili). Non tutto questo petrolio è utilizzato per il trasporto privato. Qui, possiamo stimare che i 34 milioni di veicoli privati in Italia consumino un po’ piu’ di 1000 litri di carburante l’anno ciascuno, ovvero si arriva a circa 40 miliardi di litri, circa 35 milioni di tonnellate (250 milioni di barili). Tutta la produzione Europea di olio vegetale non basterebbe per rifornire i soli veicoli italiani! (e non teniamo conto che il potere calorifico dell’olio vegetale è inferiore a quello del gasolio).

Potremmo aumentare la produzione di olio vegetale, ma avremmo abbastanza posto per le coltivazioni necessarie per nutrire con biocombustibili la flotta di veicoli privati in Europa? La risposta è un ovvio "no". E’ facile quantificare questo "no" dei dei calcoli, ma vale la pena per cominciare di riportare una "perla" letta su internet che mostra quanta disinformazione ci sia sull’argomento.

Secondo la Coldiretti, l’Italia potrebbe soddisfare in proprio buona parte delle sue necessità di biodiesel. Con la coltivazione di 350.000 ettari di colza e girasole, in grado di produrre 0,85 tonnellate/ettaro di biodiesel puro è possibile ottenere 300.000 tonnellate di biodiesel che, integrate nel carburante al 5 %, garantirebbero l’autonomia per un anno (20.000 km.) ad oltre 3 milioni di auto.

Questo paragrafo, riportato nel sito prontoconsumatore.it, può facilmente trarre in inganno il lettore distratto (come lo siamo tutti) dando l'impressione che il biodiesel da solo basterebbe per rifornire una robusta frazione del parco veicolare nazionale, ovvero 3 milioni di veicoli. Viceversa, se ammettiamo che una macchina consumi 1000 litri l’anno in media, ovvero circa una tonnellata di carburante, con 300.000 tonnellate di carburante si possono rifornire 300.000 macchine per un anno, non 3 milioni! Qui gli autori intendono, evidentemente, biodiesel "integrato nel carburante", ovvero mescolato al 5% con il gasolio ma, appunto, è una cosa che sfugge facilmente. Non indaghiamo se questa "distrazione" sia intenzionale o no, diciamo soltanto che può facilmente ingannare il lettore.

Poi, consideriamo che 350.000 ettari sono pari a oltre l’1% del territorio italiano (30 milioni di ettari). Di questi, tuttavia, meno della metà (circa 13 milioni di ettari) sono coltivabili. Ne consegue, che si sta parlando di usare circa il 3% del territorio agricolo nazionale per rifornire meno dell’1% dei veicoli in circolazione. E’ ovvio che per mandare il 100% delle macchine a carburante vegetale ci vorrebbe una superficie tre volte l’area coltivabile esistente in italia (Sandro Kensan ha fatto un calcolo simile). E facciamo grazia qui di un calcolo del rendimento della coltivazione, considerando che oggi per coltivare colza, girasole o altro ci vogliono macchinari agricoli, fertilizzanti, mezzi di trasporto. Tutte cose che vengono, vedi caso, dal petrolio!

Magari si possono usare aree marginali, magari si possono coltivare le aiuole degli spartitraffico come si faceva ai tempi del Duce e della battaglia del grano. Ma comunque si faccia, non c’è speranza di conciliare le esigenze agricole tradizionali con la fame di carburante dell’attuale flotta di veicoli privati. Saziare la fame di questa orda di creature metalliche significherebbe affamare altre creature non metalliche, ovvero noi umani. Del resto, l’Europa agricola di un secolo fa non era neanche lontanamente in grado di nutrire un numero di cavalli equivalente a quello delle automobili attuali per un numero di cittadini che, all’epoca, era molto inferiore a quello attuale.

Questa situazione è inevitabile e ha a che vedere con la scarsa efficienza della fotosintesi clorofilliana. Le piante non ce la fanno a trasformare in biomassa organici più di qualche percento della luce che arriva e, nella pratica, in termini energetici la resa di una coltivazione è di solito sotto l’1%. E’ vero che i combustibili fossili sono anche loro il risultato della fotosintesi, ma li stiamo usando a una velocità che è centinaia di volte più rapida di quella con la quale si sono formati nel remoto passato. Il carburante ottenuto dai vegetali è costoso per ragioni fisiche e non potrà mai reggere il confronto con l’abbondanza (effimera) che ci avevano dato i combustibili fossili fino a pochi anni fa.

Non possiamo pensare che i biocombustibili siano la soluzione magica che ci permetta di continuare con le abitudini di spreco e di inefficienza alle quali siamo abituate. Eppure, una volta che i loro limiti siano chiari, i biocombustibili potrebbero essere utili come una via per sostenere l’agricoltura, per rigenerare terreni maltrattati ed erosi, come una soluzione di emergenza per i trasporti essenziali qualora ci trovassimo in una crisi di disponibilità di petrolio. Sarebbe anche possibile dare una maggiore importanza ai biocombustibili nell’ambito di un sistema di trasporti ottimizzato che potrebbe essere basato sull’energia rinnovabile ottenuta dal fotovoltaico, oltre cento volte più efficiente di quella che si può ottenere dalla coltivazione delle piante. Inoltre, andare un po’ di più col "cavallo di San Francesco" non ci farebbe male alla salute.

La cosa sicura è che non ci sono soluzioni semplici per problemi complessi e che si fa soltanto della disinformazione quando si racconta alla gente che per risolvere il problema dell’inevitabile esaurimento del petrolio basta passare dal supermercato e comprarsi qualche lattina di olio di semi.