Il Punto Critico del Petrolio

Sintesi della Presentazione tenuta da Ugo Bardi alla Scuola Mattei/ENI corporate University il 22 Giugno 2005


Questa presentazione cerca di fare il punto, per quanto possibile, sulle prospettive odierne della produzione di petrolio e in generale di combustibili fossili. Cercheremo quindi di prevedere, in particolare, quando potrebbe verificarsi il “punto critico” (o picco di Hubbert) al di là del quale non sarà più possibile incrementare la produzione di petrolio greggio in modo tale da soddisfare la crescente domanda mondiale di combustibili liquidi. Tenendo conto del fatto che tutti i modelli sono sbagliati (ma alcuni meno di altri) arriveremo alla conclusione che il picco di Hubbert potrebbe essere molto vicino e il risultato potrebbe essere una situazione di gravi difficoltà economiche, delle quali l’attuale crisi potrebbe essere soltanto un assaggio. Il punto di vista qui espresso è, in generale, quello dell’associazione ASPO internazionale (Association for the Study of Peak Oil). Tuttavia, l’autore tiene a precisare che non esiste una posizione “ufficiale” di ASPO su nessun argomento, per cui i vari membri, pur normalmente vicini nelle loro interpretazioni, non sono necessariamente in accordo su tutti i dettagli. Dati i limiti di tempo e di spazio previsti, non potremo andare oltre una panoramica di tipo generale, lasciando agli interessati la possibilità di approfondire esplorando i siti dell’associazione ASPO internazionale (www.peakoil.net) e della sezione italiana della stessa associazione (www.aspoitalia.net)


Cominceremo le nostre considerazioni partendo dai dati storici disponibili, ovvero dall’andamento della produzione e dei prezzi del petrolio (corretti per l’inflazione) negli ultimi 30 anni circa. La scelta di partire da questi dati enfatizza l’approccio “sistemico” di ASPO che non è basato, come alle volte si sente dire, su una particolare stima dei dati geologici relativi alle riserve di petrolio. ASPO non ha segreti, utilizza dati disponibili a tutti cercando di interpretarli secondo modelli dinamici di consumo. Questo tipo di approccio è sostanzialmente diverso da quello tradizionale dell'industria petrolifera, almeno come lo si è inteso fino ad oggi. Nella pratica, l'industria petrolifera tende a enfatizzare la stima quantitativa delle risorse disponibili, utilizzando spesso competenze di geologia estremamente approfondite e approcci statistici molto sofisticati. Questa sofisticazione, tuttavia, si perde al momento in cui i dati geologici vengono usati per fare delle predizioni per il futuro. Molto spesso ci si limita a considerare il rapporto riserve/produzione (R/P). Dato un certo valore delle riserve, se si assume che la produzione rimanga costante, dal rapporto si ottiene un certo valore in anni. E' abbastanza evidente che questo approccio non ha molto significato considerando che la produzione non è mai rimasta costante nella storia nota della produzione petrolifera. E' un peccato, perciò, che uno sforzo equivalente a quello (considerevole) dedicato alla valutazione di "R" non sia quasi mai dedicato alla valutazione di quella che potrebbe essere la variazione di "P" nel futuro. Se è ovvio, infatti, che non si possono produrre riserve inesistenti, è altrettanto ovvio che non tutto quello che si può produrre verrà effettivamente prodotto. La produzione dipenderà nella pratica dalla disponibilità di investimenti, dalla percezione degli operatori e da una varietà di fattori economici, sociali e politici.

Ciò detto, andiamo ad esaminare i dati disponibili:

L’esame dei dati mostra una fase di prezzi stabili e di produzione in incremento esponenziale del 7% all’anno fino al 1973, circa. Questa fase si è interrotta con il picco dei prezzi e la riduzione della produzione che ricordiamo come la grande “crisi del petrolio”. Con il crollo dei prezzi del 1986 si è inaugurata una nuova fase che è stata caratterizzata da forti oscillazioni di prezzi e valori sempre superiori a quelli di prima della crisi. Gli aumenti dei prezzi che sono iniziati nel 2002 potrebbero essere il segnale di una nuova crisi, in effetti potrebbero essere il segnale dell’imminente “picco di Hubbert” come vedremo nel seguito.

L’interpretazione convenzionale della curva dei prezzi consiste in una serie di spiegazioni che potremmo definire “meteorologiche.” Ovvero, la spiegazione meteorologica di – diciamo – una giornata calda consiste nel notare come l’anticiclone delle Azzorre si trovi sull’Italia in quel particolare momento. Spiegazione corretta, ma di breve termine. Una spiegazione “climatologica” della stessa giornata calda terrebbe invece conto del generale riscaldamento dell’atmosfera dovuto all’immissione di gas serra. Per quanto riguarda il petrolio, le variazioni di prezzo vengono spesso attribuite a fattori contingenti, “meteorologici”, appunto: dichiarazioni di questo o quel personaggio politico, eventi come attentati, guerre e cose del genere. L’esame della curva storica ci porta, al contrario, a dubitare di questo tipo di interpretazione. Per esempio, si dice spesso che il primo grande balzo in su dei prezzi nel 1974 fu dovuto alla guerra del Kippur, nel Medio Oriente. La correlazione ci potrebbe anche essere, ma ci ricordiamo anche che otto anni prima, nel 1966, c’era stata la guerra dei sei giorni che aveva coinvolto gli stessi contendenti, nella stessa regione. Questa guerra non aveva causato il minimo cambiamento nei prezzi del petrolio e non aveva alterato la curva della produzione.

Ci domandiamo dunque, se è possibile fare un modello a lungo termine (“climatologico” abbiamo detto). Ovvero, senza far ricorso a fattori imponderabili quali la classica videocassetta di Bin Laden che ogni tanto viene recapitata nella cassetta della posta della CNN, è possibile dire qualcosa sulle tendenze future del sistema petrolio? Questo ha a che vedere con la capacità che abbiamo di modellizzare il futuro. La cosa è stata fatta e si continua a fare, ma qual’è l’affidabilità dei modelli? Sorprendentemente, risulta che questa affidabilità è piuttosto buona. Prenderemo dunque il “toro per le corna” andando ad esaminare la madre di tutte le predizioni, quella che è stata la pietra di paragone dell’infinita diatriba fra abbondantisti e catastrofisti che si trascina ancora oggi fra insulti e accidenti. Stiamo parlando, ovviamente, del lavoro del club di Roma pubblicato nel 1972.

Può darsi che il lettore di queste note – specialmente se giovane – non abbia sentito parlare di questo lavoro. Se ne ha sentito parlare, avrà quasi sicuramente sentito che era tutto sbagliato. Una follia di un gruppetto di professori eccentrici che, nel 1972, avevano predetto la fine del mondo a breve scadenza. Viceversa, se andiamo a rivedere lo studio originale troveremo che le cose non stanno affatto in questi termini.



La predizione “di base” del club di Roma, ovvero quella che gli autori ritenevano la più probabile è mostrata qui sopra. E’ una predizione basata su un modello detto “dinamica dei sistemi” le cui caratteristiche non dettaglieremo qui per mancanza di spazio, limitandoci a dire che è basato sulla risoluzione di un set di equazioni differenziali correlate che descrivono in vari elementi del sistema. Evidentemente, si trattava di una predizione “catastrofista” nel senso che effettivamente prevedeva una catastrofe, ovvero il crollo della produzione industriale e alimentare a partire dal 2010 circa. Il picco della popolazione era previsto per una data più lontana, ovvero verso il 2035. Indipendentemente dal valore della predizione, è interessante – e anche impressionante – notare come tutti si sono messi a dire che il club di Roma aveva “sbagliato le predizioni” almeno 15 anni prima che la predizione fosse verificabile. Notiamo anche, fra le altre cose, che si continua a lavorare sul modello usando dati aggiornati. Alla data odierna, gli autori stessi commentano che le previsioni del 1972 i sono rivelate “sorprendentemente accurate”. Il picco della produzione industriale e della produzione alimentare sono oggi previsti per il 2015 con un aggiustamento sorprendentemente piccolo rispetto alle predizioni del remoto 1972.

Per illustrare un altro esempio di predizioni a lungo termine, mostriamo qui una figura ad opera di Cesare Marchetti (pubblicata dalla IIASA nel 1984).



Lo studio di Marchetti era basato su un modello molto semplice, detto “logistico.” Nel grafico, sono riportati la produzione mondiale di legno (wood), carbone (coal), petrolio (oil) e gas naturale (Nat-Gas). Tutte le curve seguono con buona precisione lo stesso tipo di funzioni, appunto delle logistiche. Il modello ha dei limiti, e va detto che negli ultimi 20 anni le curve di produzione hanno deviato dalle semplici curve di Marchetti. Tuttavia, è impressionante notare come per oltre cento anni il modello abbia funzionato benissimo. Marchetti stesso fa notare che per ottenere le curve complete bastano dei set di dati molto ridotti. Già nel 1870 si sarebbe potuto prevedere quale sarebbe stata la produzione di carbone o legna nel 1970, cento anni dopo.

Ci sarebbero molti altri esempi da mostrare per illustrare il concetto che le nostre capacità predittive a lungo termine sono, nel complesso, piuttosto buone. L’era dei computer digitali ci ha dato delle possibilità una volta impensabili, per la prima volta sfruttate nel lavoro pioneristico del Club di Roma. Non sappiamo prevedere eventi improvvisi come le guerre o le rivoluzioni, oppure fenomeni che alle volte vanno sotto il nome di “atti di Dio” come i terremoti, gli tsunami, e cose del genere. Tuttavia, se consideriamo fenomeni di tipo economico (produzione, mercati, diffusione di prodotti e simili) possiamo fare dei buoni modelli. I sistemi piccoli sono soggetti a oscillazioni di tipo statistico che li rendono difficilmente trattabili, ma i modelli risultano tanto più buoni quanto più grande è il sistema in esame. E’ quindi triste notare come il lavoro del club di Roma sia stato demolito e demonizzato con un’operazione politico-ideologica che ricorda quella con cui tutta la biologia sovietica fu marginalizzata per decenni al tempo del dominio di un biologo di nome Lysenko che godeva dei favori di Stalin e che aveva le sue idee (sbagliate) su quello che la biologia doveva essere.

Stabilita la generale validità e utilità dei modelli di cui disponiamo, possiamo passare ad applicarli al caso del petrolio. In effetti, lo sviluppo dei modelli predittivi nel caso del petrolio è anche precedente a quella dei modelli dinamici del Club di Roma e ha dato i suoi primi risultati per mezzo di carta millimetrata e penna. Negli anni 1950, un geologo americano, Marion King Hubbert, cominciava per la prima volta a cercare di prevedere l’andamento della produzione petrolifera nei 48 stati meridionali americani. Non aveva altra guida che la sua intuizione e il fatto che l’ammontare di petrolio estratto doveva essere, per forza di cose, finito. Hubbert usò diversi approcci per il suo studio e alla fine si risolse al metodo che ancora oggi va sotto il nome di “Metodo di Hubbert”. Questo consiste come primo passo nella stima delle riserve estraibili finali (URR) a partire dai dati geologici, dopodichè si procede a fittare la curva di produzione storica mediante una “curva a campana” che può essere una gaussiana, la derivata di una logistica, o una curva simile. Si impone come condizione di fitting che l’area sotto la curva sia uguale al valore della URR stimata. Questa è una copia del grafico originale di Hubbert, presentato nel 1956,




Come si vede, Hubbert fece due stime della quantità di petrolio estraibile: una di 150 miliardi di barili, l’altra di 200 miliardi. A seconda della stima, il risultato erano delle curve che avevano il massimo, il picco di Hubbert, rispettivamente nel 1968 e nel 1971.

A distanza di quasi cinquanta anni possiamo vedere come sono andate effettivamente le cose.

Una delle due predizioni di Hubbert si è avverata con una precisione sorprendente: nel 1971 i 48 stati meridionali degli Stati Uniti hanno effettivamente raggiunto il massimo di produzione, declinando inesorabilmente da allora. L’aggiunta dell’Alaska come produttore ha cambiato di poco le cose, spostando il picco in avanti di solo qualche anno.

Il valore della predizione di Hubbert non è tanto quello di aver azzeccato l’anno esatto (e, come abbiamo visto, aveva fatto due predizioni, delle quali una si era rivelata meno esatta). Anche se la predizione fosse stata meno precisa, sarebbe stata comunque di grande valore soltanto per aver considerato il fatto che le risorse petrolifere americane erano destinate ad esaurirsi. Che questo potesse verificarsi nei tempi previsti da Hubbert era qualcosa di completamente alieno al modo di pensare dell'epoca e la predizione di Hubbert fu fortemente criticata. Il modello non fu veramente capito dopo che il picco dei 48 stati si era verificato e ancora oggi si trovano economisti che giurano che il calo della produzione Americana è dovuto a un complotto delle compagnie petrolifere.

La curva di Hubbert per la produzione americana ci offre una spiegazione ragionevole dell’andamento dei prezzi del petrolio e delle ragioni della grande crisi degli anni 1970. Gli Stati Uniti sono, in effetti, una delle più grandi province petrolifere del mondo ed è ovvio che il raggiungimento del picco in quella regione non poteva non avere conseguenze profonde su tutto il mercato. Sappiamo che l’incremento produttivo che gli Stati Uniti non potevano più procurare fu fornito dall’Arabia Saudita e dagli altri produttori Medio-Orientali. Tuttavia, neanche l’Arabia Saudita era in grado di rimpiazzare completamente il declino americano e il risultato fu un periodo di assestamento, quella fase di aumento di prezzi che chiamiamo “la grande crisi del petrolio.” Dopo un certo tempo, il sistema si è riassestato in una configurazione dove la crescita non è più così tumultuosa come lo era prima della crisi e dove i produttori medio-orientali hanno giocato per due decenni circa il ruolo di “swing producers” che hanno tenuto fino ad oggi. Ci sono molti esempi di produzione mineraria locale che hanno seguito una curva a campana ben definita. Il caso dell’Unione Sovietica è estremamente interessante e meriterebbe uno studio e una discussione dettagliata. Non lo considereremo qui per ragioni di spazio limitandoci a tenere in mente il caso americano che ci fornisce una linea di guida da tener presente.

Passiamo adesso ad esaminare il “sistema mondo”. Assumendo che il modello di Hubbert sia valido, dobbiamo cominciare con la stima delle risorse estraibili (URR) mondiali. Notiamo di passaggio che quando parliamo di “risorse” intendiamo una grandezza definita in modo ben diverso da quello che nel gergo delle compagnie petrolifere viene definito “riserva provata”. Le riserve provate sono stime intenzionalmente definite in modo tale da sottostimare la quantità di petrolio presente in un giacimento. Questa definizione ha degli scopi specifici nella gestione della rendicontazione delle riserve, ma può facilmente trarre in inganno il non esperto che riceve l’impressione di una continua crescita delle riserve. Viceversa, le risorse sono definite come la quantità totale stimata di petrolio estraibile. E’ un valore ovviamente incerto, ma che non deve crescere nel tempo almeno a partire dal momento in cui sono stati disponibili dei dati abbastanza estesi e affidabili delle risorse petrolifere mondiali.

Come è ovvio, ci sono forti controversie sul valore effettivo delle URR. Tuttavia, tenendo conto delle incertezze del caso, possiamo anche interpretare la situazione come una di accordo abbastanza generale. Mostriamo qui di seguito alcuni dati di Colin Campbell (2002), tratti da www.peakoil.net



Si trovano su internet altri set di dati per la stessa grandezza. In generale, questi set sono in buon accordo nell’indicare che le stime delle URR si sono assestate intorno a un valore medio di circa due trilioni (duemila miliardi) di barili. Qualcuno (p. Es. Michael Lynch) mostra qualche punto un po’ più ottimista, ma sostanzialmente l’unico set di dati che possiamo considerare “serio” e che non è in accordo con questi valori medi è quello pubblicato dall’USGS (United States Geological Survey) nel 2000 per conto dell’International Energy Agency (IEA). il lavoro dell’USGS/IEA del 2000 appare in effetti anomalo nell’indicare un valore probabile di circa 3000 miliardi di barili (3 Terabarili). Discuteremo più in dettaglio nel seguito gli effetti di questa discrepanza sulle previsioni del picco, limitandoci per ora a prendere come un ragionevole valore medio per le URR quello di circa due terabarili.

Dato questo valore, possiamo ora applicare la teoria di Hubbert. Un approccio molto semplice, addirittura brutale è quello usato da Deffeyes nel suo libro del 2000 “Hubbert’s Peak”.



L’approccio di Deffeyes (e altri) non riproduce molto bene la curva sperimentale ma ha perlomeno il vantaggio di dare un’idea di come la teoria sia “robusta.” Cambiando i valori della URR da 1.8 a 2.1 terabarili, la data prevista per il picco non cambia sostanzialmente. Tuttavia il fitting che si ottiene non è neanche paragonabile a quello che Hubbert aveva ottenuto nella sua analisi dei dati della produzione americana. Pertanto, qualsiasi data venga fuori da questo tipo di modellizzazione semplificata deve essere presa soltanto come un’approssimazione grossolana.

Esistono invece approcci più sofisticati che non si basano sull’approccio classico (che possiamo definire come “top down”) di Hubbert. Questi modelli possono essere definiti come “bottom up” e consistono nella stima separata delle potenzialità petrolifere delle singole regioni planetarie. Queste stime vengono poi sommate per dare la predizione globale. Un esempio è il modello “WOCAP” sviluppato da Ali Samsam Bakhtiari che prevede il picco verso il 2005, un altro è quello di Colin Campbell che è basato sui dati della ditta Petroconsultants. Quest’ultimo modello distingue anche fra petrolio convenzionale e altri tipi di petrolio che possono essere comunque estratti.




In questo caso, appunto, una forma particolare della curva non è un parametro in input del modello. Il risultato finale è, tuttavia, una curva che possiamo definire consistente in termini generali con la teoria di Hubbert. Qui, il picco di produzione è atteso approssimativamente per il 2008.

Tutti i modelli descritti finora hanno il valore delle URR come parametro in input. Ci dobbiamo pertanto domandare quanto sia sensibile la predizione a questo parametro. In particolare, se la stime ottimistiche USGS/IEA (3 terabarili) fossero corrette, di quanto sarebbe spostato in avanti il picco? Lo studio stesso della IEA ci da una risposta. Qui, non si usa mai la parola “Hubbert” (politicamente scorretta in molti ambienti) ma la modellizzazione usata è dello stesso tipo, sia pure con dei picchi aguzzi anziché arrotondati.




Come già si era visto nel caso dei calcoli di Deffeyes, la data del picco varia abbastanza poco per cambiamenti del valore delle URR. Qui, l’assunto della USGS/IEA che le URR siano del 50% superiori a quanto visto prima sposta la data di meno di dieci anni nel futuro, al 2016. Esiste anche la possibilità, come si vede nella figura, che la curva di produzione sia fortemente asimmetrica. In questo caso, potremmo mantenere un incremento del 2% all’anno nella produzione fino al 2037. Questo però sarebbe ottenuto in cambio di una caduta quasi verticale immediatamente dopo. Questo scenario, se si verificasse, sarebbe veramente disastroso. Non è escluso che la curva di produzione globale risulti asimmetrica, ma non sono noti casi storici di un cambio di pendenza così brutale come quello postulato in questo modello. Perciò (per nostra fortuna) l'ipotesi dell'IEA non sembra molto realistica.

Ritornando al modello simmetrico, 10 anni di più o di meno non sono molti, ma fanno certamente una differenza. Ci possiamo dunque domandare quale sia l’affidabilità della predizione “anomala” dell’USGS. Senza addentrarsi nei dettagli di un’analisi completa, diciamo comunque che l’approccio dell’USGS è stato criticato in molte sedi. Secondo l’autore di queste note, il limite e il difetto del lavoro dell’USGS, e non solo di quello, è stato di concentrarsi sulla stima di tutto quello che potrebbe essere estratto in linea di principio, senza considerare i fattori economici e temporali che fanno si che una risorsa teoricamente estraibile in senso geologico in fin dei conti non verrà estratta se non c’è un’ovvia convenienza economica ad estrarla. Ricordandoci che la chiave del futuro sta nel passato, possiamo anche andare a riverci la storia delle passata predizioni per i 48 stati Meridionali degli Stati Uniti.





Una comparazione della situazione di prima del 1970 con la situazione attuale può risultare molto istruttiva. Sappiamo dai dati disponibili oggi (come mostrato in una figura precedente) che i 48 stati meridionali degli Stati Uniti estrarranno circa 190 miliardi di barili nel corso del loro ciclo produttivo. Vediamo che le predizioni fino al 1958, circa, erano nel complesso abbastanza vicine al valore vero. Ne possiamo dedurre che quando lasciamo fare le stime a dei geologi esperti, che sanno di cosa parlano, è possibile avere dei valori discretamente buoni. Le cose sono cambiate dopo il 1958, con un netto incremento delle stime delle URR, arrivando al valore di addirittura 658 miliardi di barili, assolutamente fuori dalla grazia di Dio. Se i 48 stati (con o senza l’Alaska, fa poca differenza) avessero contenuto tutto questo petrolio, gli Stati Uniti non sarebbero ancora passati attraverso un picco e la loro produzione avrebbe continuato ad aumentare almeno fino ad oggi. Come sia stato possibile fare una previsione così fuori bersaglio da persone presumibilmente esperte, è difficile giudicare. Sembrerebbe che l’errore sia sempre lo stesso, ovvero sommare risorse teoreticamente estraibili senza considerare che non tutto ciò che è geologicamente estraibile lo è anche economicamente. Si lascia al lettore di giudicare se fattori politici correlati alla predizione di Hubbert del 1956 abbiano influenzato le stime dell’USGS del 1961 e 1963. Si lascia, parimenti, al giudizio del lettore, se fattori simili abbiano infulenziato le stime dell’USGS delle URR mondiali nel 2000.

Siamo dunque arrivati un po’ al nocciolo della questione. Sembrerebbe che sia possibile avere delle buone stime geologiche delle riserve estraibili. Tuttavia, i dati sono incerti e nel passato sono stati fatti degli errori. Quindi, ci possiamo domandare quale sia l’affidabilità generale di tutte le stime che stiamo facendo. Per farcene un’idea, possiamo prendere un approccio completamente diverso, bypassando quello che è il problema della stima delle URR. Possiamo ritornare all’approccio originale di Hubbert, ovvero di stimare le risorse partendo dall’andamento della curva. Come abbiamo detto prima, questo è difficile usando modelli semplici a causa della presenza di quella grossa irregolarità nella curva di produzione che è stata causata dalle crisi del petrolio degli anni 1970. Usando una matematica più sofisticata, tuttavia, è possibile tener conto anche di queste irregolarità. Questo è l’approccio utilizzato da Renato Guseo dell’Università di Padova. Guseo utilizza un modello diffusivo detto “equazione di Bass” che ha un ottimo record nella descrizione di fenomeni economici, come diffusione di mercato, curve di produzione, eccetera. Nella sua forma più semplice, il modello di Bass produce curve simmetriche a campana, qualitativamente non molto diverse da curve Gaussiane. Nella sua forma “generalizzata” il modello viene modificato con una funzione perturbativa x(t) come segue. In questa forma, la curva integrata risultante non è necessariamente simmetrica





Ecco i risultati del fitting della curva di produzione del petrolio convenzionale:



Guseo ottiene una curva asimmetrica, un risultato simile a quello dei modelli del club di Roma. La cosa interessante è che il valore della URR ottenuto in questo modo (ca. 1500 gigabarili) è simile a quello stimato da Campbell (ca. 1800 Gb) e la data del picco viene ad essere, anch’essa, molto vicina a quella delle data stimate da molti dei modelli tipo Hubbert.

Ora, ogni misura è soggetta a un errore sistematico. Ma quando si usano due metodi completamente diversi per fare una misura della stessa cosa, e quando i risultati sono comparabili, allora vuol dire che si sta facendo qualcosa di buono. Il risultato di Guseo è dunque di enorme interesse nel confermare la validità dell’approccio di Hubbert. Possiamo concludere che abbiamo dei buoni modelli di predizione che ci danno risultati abbastanza consistenti per quello che ci possiamo aspettare nel prossimo futuro. Il risultato non può essere ignorato: il picco di Hubbert non si trova in un futuro remoto, tale da essere ben al di la delle nostre preoccupazioni immediate. Si trova invece in un futuro assai prossimo, ben all’interno dell’orizzonte temporale della maggioranza dei lettori di queste note.

Ritorniamo ora ai dati iniziali. A questo punto possiamo dire che l’incremento dei prezzi osservato negli ultimi anni è molto probabilmente l’indicazione di un fenomeno strutturale dovuto al progressivo esaurimento dei pozzi.



Non stiamo esaurendo il petrolio, ma stiamo esaurendo il petrolio a buon mercato. E’ vero che l’estrazione del petrolio da certi pozzi (tipo Arabia Saudita) costa ancora molto poco, ma è anche vero che questi pozzi sono probabilmente in via di esaurimento ed è anche probabile che il mercato stia reagendo già oggi, attraverso meccanismi del mercato finanziario come i “futures” a una percezione di futura, inevitabile scarsità. Di fronte ai dati, il lettore di queste note può pensarla come vuole, ma la convergenza dei risultati dei modelli invita a pensare che c’è qualcosa sotto che non possiamo ignorare.

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Si tratta ora di domandarsi: che cosa ci aspettiamo che succeda al picco? La questione è stata spesso posta e le risposte sono state molto varie. Si va dall’atteggiamento di Jay Hanson, fondatore del concetto del “dieoff” (la moria) che vuole che il picco corrisponde all’inizio della fine della civiltà, oppure al “modello Olduvai” di Richard Duncan, che anch’esso vede il ritorno dell’umanità allo stato paleolitico come conseguenza del picco. Dall’altra parte, gli abbondantisti ad oltranza, messi alle strette ammettono che il picco ci sarà prima o poi, ma prospettano una sostituzione del petrolio con altre risorse così liscia e automatica che non ci accorgeremo nemmeno che siamo passati attraverso il picco.

Senza esagerare con le profezie di sventura, è pur vero che nel 1979, di fronte a quello che fu “un” picco del petrolio (anche se non “il” picco) ci trovammo di fronte a serie difficoltà economiche: inflazione a due cifre, recessione, disoccupazione, instabilità politiche mondiali, eccetera. Il fatto che molte di queste condizioni siano presenti al momento attuale è, in effetti, uno dei motivi che spinge la gente a preoccuparsi per il possibile prossimo picco globale. Quindi, dato che il passato è l’origine del futuro, possiamo qualitativamente aspettarci condizioni economiche non proprio serene nel prossimo futuro.

Ma è veramente così? O non avranno piuttosto ragione quelli che sostengono che il sacro mercato risolverà tutto se solo lasciamo gli operatori a inseguire il loro personale profitto? E’ curioso pensare che nonostante l’importanza della domanda, nessuna agenzia governativa di quelle preposte a studiare problemi energetici ha mai ritenuto opportuno commissionare qualche studio serio e, soprattutto, quantitativo, di quello che ci potevamo aspettare al picco. Ancora una volta, vediamo l’ideologia e il pensiero unico dominare le azioni di enti che, invece, dovrebbero ogni tanto dimostrare una certa capacità di pensiero indipendente. Solo recentemente, il Dipartimento dell’Energia (DOE) degli Stati Uniti si è deciso a commissionare uno studio del genere. Questo studio, ad opera del Prof. Hirsch e dei suoi collaboratori è stato pubblicato nel febbraio di quest’anno e lo si trova facilmente su internet.

Quello di Hirsch è uno studio serio, completo, conservativo ma che non ha paura di dire cose politicamente scorrette quando è il caso. Se i risultati di Hirsch non confermano il modello “Dieoff”, tuttavia dicono chiaramente che i puri meccanismi del mercato non ce la faranno a contrastare il declino della produzione petrolifera dopo il picco. Hirsch segue un approccio “bottom up” ovvero stima come le nuove tecnologie potranno ragionevolmente entrare in linea dati certi limiti ragionevoli di investimento, tenendo conto anche dei tempi necessari. Le tecnologie considerate da Hirsch sono quelle in grado di produrre combustibili liquidi in grado di sostituire il petrolio nella tecnologia dei veicoli esistenti. Queste sono: 1) Oli pesanti, incluse le sabbie bituminose 2) Liquefazione del carbone 3) processi “Gas To Liquid” (GTL) 4) Miglior recupero dai pozzi (Enhanced Oil Recovery, EOR) e 5) miglioramento dell’efficienza dei veicoli. I risultati sono mostrati nelle figure seguenti. Per prima cosa, vediamo l’incremento calcolato nella produzione di combustibili, espresso in milioni di barili di petrolio equivalenti al giorno.




Hirsch assume per semplicità che questo incremento sia lineare; si noti l’intervallo di tempo in cui non si produce niente a partire dal tempo “zero”. Se questo tempo zero corrisponde al picco, per almeno tre anni non esiste niente che possa contrastare il declino della produzione.

Qui di seguito, invece, vediamo come la produzione di sostituti del petrolio non arrivi a mantenere la crescita del 2% annuo circa che è stata la regola fino ad oggi. L’ingresso in produzione delle nuove tecnologie riesce soltanto a mitigare l’effetto del picco ma non a contrastarlo. In sostanza, con il picco del petrolio non possiamo mantenere la crescita economica, cosa del resto in accordo con l’esperienza del picco del 1979.





Concludiamo questa presentazione mostrando un ulteriore dato che finora non abbiamo menzionato ma che non possiamo ignorare: l’effetto della combustione dei fossili sull’atmosfera. Qui vediamo l’aumento delle temperature medie mondiali osservato nell’ultimo secolo e mezzo, circa.




Questo del riscaldamento globale è l’altra faccia del “problema petrolio”. Se da una parte potrebbe essere che oggi ne abbiamo troppo poco , da un altra ne abbiamo troppo per poterlo bruciare impunemente senza fare gravi danni all’atmosfera (e, di conseguenza, a noi stessi). Anche questo dato è soggetto a interpretazioni emozionali e/o ideologiche. Alcuni hanno detto che la “fine del petrolio” potrebbe liberarci dal problema del riscaldamento globale e alcuni sono arrivati a sostenere che è sleale parlare tanto del picco di Hubbert dopo che tanto sforzo e tanto lavoro è stato fatto per convincere i governi e l’opinione pubblica mondiale che l’effetto serra è una cosa reale. Da qui alle teorie del complotto ci passa poco e siamo arrivati anche a questo, ovvero a sostenere che l’ASPO è un associazione prezzolata dai petrolieri per nascondere la reale abbondanza delle risorse (sfortunatamente per l’autore di queste note, sembra che ci sia stata una svista da qualche parte e che il suo nome sia sfuggito alla lista degli stipendiati).

Tuttavia, abbiamo visto che non siamo vicini alla “fine del petrolio”. E’ probabile che la robusta depressione economica che potrebbe essere il risultato del picco rallenterebbe le emissioni dando un po di respiro (letteralmente) al pianeta e ai suoi abitanti. E’ anche possibile, tuttavia, che le strategie di “mitigazione” considerate da Hirsch potrebbero essere messe in atto, e questo porterebbe probabilmente a un notevole incremento nella generazione di gas serra.

Qualunque cosa si pensi, comunque, è bene ricordarsi che non si può risolvere un problema se non si ammette che esiste. Questo è il caso dell’attuale situazione, dove i danni peggiori a tutti quanti vengono fatti dall’ottusità ideologica imperante che nega il problema e impedisce che si sviluppino metodi per contrastarlo. Ci sono, tuttavia, segni di un cambiamento di rotta. Se faremo in tempo a evitare i danni peggiori, soltanto il tempo ce lo dirà