RIVISITANDO “I LIMITI ALLA CRESCITA”:
DOPO TUTTO, IL CLUB DI ROMA
POTREBBE AVERE AVUTO RAGIONE?

 

Questo documento è pubblicato on-line su
www.oilcrash.com
e su www.aspoitalia.net

Un libro bianco sull’energia
di Matthew R. Simmons
Ottobre 2000

Traduzione di Aldo Carpanelli
La versione originale inglese, in formato PDF,
è disponibile su
www.greatchange.org
  Copertina


Il prezzo del progresso

Quando ciascuno di noi come individuo decide di acquistare qualcosa, dapprima prende in considerazione il prezzo. Eppure, la società nel suo complesso ha da lungo acquistato l’idea della crescita continua della popolazione e della produzione, senza calcolare il prezzo finale.

Oggi, una squadra di scienziati del M.I.T., con l’aiuto di un potente computer, ha completato uno studio su come potrebbe essere il futuro se la crescita attuale continuasse. Le loro conclusioni inevitabili vanno oltre i peggiori timori di chiunque. Probabilmente entro soli 70 anni, il nostro sistema sociale ed economico collasserà, a meno che vengano messi subito in atto drastici cambiamenti.

“I limiti alla crescita” ha messo in evidenza la fine del mondo. Le ondate di shock che ha provocato hanno fatto crollare i nostri presupposti preferiti. Si tratta di un libro che possiamo ignorare solo a nostro rischio.

«Se questo libro non fa impazzire chiunque sia in grado di leggere, allora la Terra è finita.»

Robert C. Townsed
Autore di “Up the Organization”


Rivisitando “I limiti alla crescita”:
dopo tutto, il Club di Roma potrebbe avere avuto ragione?

Nei primi anni ‘70 è stato pubblicato un libro dal titolo “I limiti alla crescita”, un rapporto sulle proiezioni del Club di Roma a proposito delle condizioni dell’umanità. Le sue conclusioni erano sbalorditive. Fu pubblicato in trenta lingue diverse e venduto in oltre trenta milioni di copie. Secondo un sofisticato modello del MIT elaborato al computer, il mondo si sarebbe alla fine trovato senza molte delle sue risorse chiave. Questi limiti si sarebbero rivelati la condizione finale dell’umanità.

Negli anni appena trascorsi, ho sentito molti economisti che si occupano di energia hanno attaccato questo lavoro “sbagliato”. Spesso il libro è stato dipinto come l’infantile “manifesto” letterario di un modo di pensare “Maltusiano” disinformato che trent’anni fa ha indotto così tanta gente a credere a torto che il mondo si trovasse di fronte ad una situazione di penuria. Ovviamente, non c’era alcun “Limite alla crescita”. La preoccupazione che la scarsità di materie prime avrebbe dominato lo scenario all’avvicinarsi del XX secolo venne trasformata in una battuta di cattivo gusto. Anziché da penuria, gli ultimi due decenni del XX secolo sono stati segnati dalla sovrabbondanza. Il mondo si è ritrovato a godere di un calo nei prezzi di quasi ogni cosa. La tecnologia e l’efficienza hanno vinto. Il Club di Roma e i suoi discepoli della contraddizione hanno chiaramente perso!

I critici di questo frammentario lavoro godono ancora nel mettere in evidenza quanto questa teoria si sia rivelata errata. Un articolo di politica internazionale pubblicata nel gennaio scorso, intitolata “Petrolio a buon mercato”, prevede due decenni di incombente sovrabbondanza di petrolio. In questo articolo, il lavoro del Club di Roma viene deriso come il documento che ha indotto un’intera generazione a pensare in modo errato nel credere che la disponibilità energetica si sarebbe rivelata insufficiente. In questo rapporto di politica estera, gli autori hanno affermato: «…la scuola delle previsioni petrolifere allarmistiche è stata sistematicamente sbagliata per più di una generazione. Nel suo drammatico rapporto del 1972 intitolato “I limiti alla crescita”, il gruppo di importanti esperti conosciuti come Club di Roma ha scritto che rimanevano solo 550 miliardi di barili di petrolio e che si sarebbero esauriti entro il 1990».

Nel maggio scorso, il Baker Institute della Rice University tenne una conferenza intitolata “Running on Empty?” [Correndo sul vuoto? - N.d.T.] nel corso della quale l’argomento delle disponibilità energetiche future sono state trattate con cura. John Lichtblau, Presidente della Petroleum Industry Research Foundation (PIRINC) fece riferimento a questo lavoro nelle sue note chiave. In un commento su quanto virtualmente tutte le previsioni globali circa una produzione petrolifera limitata dalla disponibilità di risorse si fossero rivelate sbagliate, disse «Molti di voi ricordano ancora l’ampiamente citato, molto prestigioso rapporto del “Club di Roma” del 1972 che prediceva un significativo limite imposto alla produzione petrolifera dalla carenza di risorse entro la fine del XX secolo».

Trattandosi di una pubblicazione che non è più in stampa da quasi trent’anni, è affascinante che qualcuno ancora ricordi cosa vi si dicesse. Occasionalmente, mi fanno sorridere le passioni che ancora evoca questo lavoro del Club di Roma. Nel sentire screditare questo studio in modo così completo, mi sono chiesto se la rabbia che esso ancora genera sia l’equivalente dell’arrabbiarsi col barista “la mattina dopo”, quando il mal di testa è lancinante. L’angoscia che questo lavoro ancora genera, potrebbe nascere da una reazione o da un imbarazzo di quegli stessi critici per l’aver fatto propri quei concetti di penuria poi sconfessati?

La prima volta che l’argomento “Club di Roma” catturò la mia attenzione, fu dopo che ebbi parlato al convegno annuale della International Association of Energy Economists a Dallas, in Texas, il giorno dell’Election Day del 1994. In quell’occasione, parlai della fine incombente delle tre “bolle” che avevano mantenuto una tale eccedenza nelle forniture energetiche e tenuto i prezzi così bassi: il petrolio, il gas, gli impianti di trivellazione (c’è stato un enorme eccesso di equipaggiamenti). Affrontai anche l’incombente volatilità del nostro mercato energetico ora che i prezzi del NYMEX avevano preso piede (li definii il nuovo elemento trainante dell’“autobus energetico”). Pensavo che fosse un buon discorso e che ne sarebbero scaturite diverse domande, ma non ce ne fu nessuna. Un pubblico ovviamente incredulo si produsse in un totale silenzio. Avevo chiaramente mancato il bersaglio.

Mentre lasciavo l’hotel nel quale si era tenuto il convegno, qualcuno mi avvicinò e disse: «Ho sentito il suo discorso!». Si fermò. Non ero certo di dover rispondere con un «Grazie!». Prima che potessi rispondere, egli proseguì: «La sua tesi era interessante. Lei è ovviamente un Maltusiano; un seguace del “Club di Roma” o un classico sostenitore cronico della penuria incombente!»

Seppi a quel punto di avere completamente mancato il bersaglio. Il mio discorso non conteneva alcun riferimento ad alcuna forma di penuria. Stavo semplicemente avvisando che l’era dell’ampia eccedenza energetica era quasi terminata. Nel tentativo di usare un linguaggio più semplice, risposi: «No. Nei fatti, non sono per nulla un Maltusiano, sono un Agrario. Studio i cicli delle merci. La maggior parte riguardano l’agricoltura. Gli schemi sono sempre gli stessi. La domanda per un particolare tipo di produzione agricola finisce per crescere sempre troppo in fretta. Le disponibilità conseguentemente si riducono e i prezzi crescono. L’agricoltore accelera il suo ciclo di semina per approfittare di questi prezzi più elevati proprio quando la domanda sta cominciando a calare perché è troppo elevata. Questo crea un eccesso di disponibilità. I prezzi crollano. L’agricoltore smette di seminare. Non appena la disponibilità cala, i prezzi ridotti iniziano a stimolare la domanda. Come risultato, le merci oscillano avanti e indietro, andando a razzo da un picco fino a terra e, quindi, nuovamente verso il picco. Accade praticamente ad ogni prodotto agricolo.»

Proseguii: «L’unica differenza tra l’agricoltura e l’energia è che sono necessari alcuni mesi per seminare il frumento, mentre servono circa sette anni per “seminare” e “raccogliere” un nuovo giacimento nel campo dell’energia. Così, i cicli sono semplicemente più lunghi! Quindi, fra dieci anni, starete tutti a discutere la probabilità di vedere il petrolio a 200 dollari proprio mentre la domanda starà calando e le forniture crescendo!»

Ero abbastanza soddisfatto della mia pronta risposta e pensavo che cogliesse l’essenza di quanto avevo tentato di dire a quell’assemblea scettica, poco prima, quello stesso pomeriggio. Ma la persona alla quale avevo presentato questa logica impeccabile, mi rispose semplicemente: «Che io sia dannato! Avrei giurato che fosse un classico Maltusiano!» e se ne andò.

Tramite questo scambio umoristico di idee, fui accidentalmente messo di fronte all’intera conoscenza del Club di Roma. Mentre ricordavo vagamente di aver sentito parlare di quel rapporto nei primi anni ‘70, prima dell’incontro di Dallas non mi ero mai concentrato su ciò di cui si occupava.

Dal momento in cui divenni consapevole del rapporto che la conteneva, nel 1994, ho continuato a sentire menzionare la tesi della penuria del Club di Roma da vari economisti energetici, che ne condannavano il contenuto come assolutamente sbagliato. Ma non mi sono mai dato pensiero di quali fossero in realtà le specifiche previsioni del Club di Roma, né ho mai neppure saputo chi componesse questo “misterioso” Club che pronosticava la fine del mondo.

La principale ragione per la quale non mi sono mai preoccupato di acquisire maggiori conoscenze circa il rapporto del Club di Roma è che non ho mai fatto mia la teoria secondo la quale il mondo si sarebbe trovato di fronte una carenza energetica permanente. Il “rimanere senza petrolio” non ha mai avuto alcuna relazione con la mia crescente preoccupazione dell’ultimo decennio secondo la quale ”non va tutto bene nel mondo dell’energia”.

Le mie preoccupazioni riguardanti l’energia hanno sempre riguardato la semplice prospettiva per la quale la domanda potrebbe un giorno cominciare a superare la disponibilità. E’ una questione completamente diversa dal rimanere senza energia. Sono entrambi problemi definiti, ma affrontano temi diversi.

Non c’è in realtà alcuna relazione tra i due problemi. Rimanere a corto di forniture giornaliere è un po’ come la relazione tra il cibo e la fame. Il mondo non è mai rimasto senza cibo, eppure abbiamo sofferto carestie regionali fin dalla notte dei tempi. Questi sono meri problemi di distribuzione logistica.

La mia curiosità circa ciò che realmente aveva previsto il Club di Roma nel suo libro “I limiti alla crescita” è stata accesa la scorsa primavera dopo che ho ascoltato un discorso di James Wolfenson, a capo della Banca Mondiale, alla Global Harvard Business School Conference di Berlino. Wolfenson fornì il punto chiave d’apertura a un gruppo di 1200 studenti dell’Harvard Business School provenienti da tutto il mondo, lì raccolti per discutere “Un mondo senza mura: le sfide di un’economia globale”.

Il suo discorso riguardava l’acuto bisogno delle popolazioni ricche del globo di non trascurare o dimenticare le parti meno fortunate del globo. Come affermò eloquentemente, solo 1,2 miliardi di persone vivono nei Paesi altamente sviluppati del mondo. 250 milioni sono negli Stati Uniti, 500 milioni nell’Europa ampliata e 350 milioni in Canada, Messico e nei Paesi del Pacifico del’OCSE. Per questo gruppo, la ricchezza non solo va crescendo, ma non è mai stata più elevata.

Ma dopo, Wolfenson avvisò del rischio insito nel trascurare i 4,8 miliardi di persone che vivevano nelle economie meno sviluppate o in fase di transizione in giro per il mondo. Sconvolgentemente, 2 miliardi di questi vivono con meno di 2 dollari al giorno! Un miliardo vive con meno di 1 dollaro al giorno! Una povertà abietta abbonda nei Paesi meno fortunati. Wolfenson avvisò che, nella nostra società globale moderna, con telecomunicazioni globali, non è ragionevole neppure pensare di potere mantenere questo divario tra ricchi e poveri per altri 50 anni.

Secondo Wolfenson, la grande sfida dei prossimi decenni consiste nel ridurre questo divario. Non sarà un compito facile, ma bisogna farlo. Nel sentire queste tristi statistiche, fui indotto a ripensare a una approfondita ricerca che condussi nell’estate del 1997, a proposito delle “insaziabili esigenze energetiche della Cina”.[1]

La principale conclusione alla quale giunsi dopo questa ricerca sulla Cina, che implicò una analisi approfondita di ciò che accade ai consumi di energia quanto un Paese povero comincia a prosperare, è che la crescita di tali consumi va sempre mano nella mano con il passaggio di quel Paese da una condizione di povertà ad una condizione di ricchezza anche solo leggermente maggiore.

Al termine di questo studio sulla Cina, mi ritrovai a chiedermi se il mondo avesse realmente abbastanza risorse per consentire alla Cina stessa di realizzare il proprio sogno di successo economico. Dal lavoro che ho fatto sull’impiego pro-capite di energia, se la Cina dovesse mai raggiungere un livello equivalente a quello del Giappone degli anni ‘60 [figuriamoci se dovesse alla fine convertire la sua intera smisurata popolazione al livello di prosperità degli odierni Stati Uniti], la transizione consumerebbe così tanta energia da indurre a chiedersi se una tale mole di energia aggiuntiva effettivamente esista. Come minimo, porterebbe ai limiti le intere risorse energetiche mondiali.

Entro alcuni mesi dal momento in cui finii il rapporto sull’energia in Cina, l’influenza asiatica invase il mondo. Improvvisamente, la possibilità che la Cina (o qualsiasi altro Paese asiatico) potesse continuare a crescere, cominciò a sembrare remota. Così, non intenzionalmente, mi dimenticai la conclusione primaria del mio studio sulla Cina.

Sulla strada del ritorno da Berlino, continuai a pensare alle implicazioni del diventare normali cittadini del mondo da parte delle popolazioni povere del globo. Questo mi portò a riflettere sull’intera questione del Club di Roma. Più riflettevo, più cominciavo a domandarmi se questo gruppo potesse dopo tutto aver avuto ragione a preoccuparsi. Forse avevano solo avuto torto a fissare i tempi in 30-50 anni. O, forse, questo gruppo aveva immaginato che, entro il 2000, il mondo avrebbe colmato il divario tra ricchi e poveri, generando quindi quella penuria che temeva si sarebbe verificata.

Non appena tornai negli Stati Uniti, chiesi al nostro bibliotecario di trovarmi una copia del libro prodotto dal Club di Roma quasi trent’anni fa.


Cosa diceva in realtà “I limiti alla crescita”

Dopo aver letto “I limiti alla crescita” ero strabiliato. Da nessuna parte, nel libro, veniva menzionato l’esaurimento di alcunché entro il 2000. Invece, le preoccupazioni evidenziate erano tutte centrate sul come sarebbe potuto essere il mondo cento anni dopo. Non c’era una sola frase e neppure una sola parola a proposito della carenza di petrolio, né alcun limite per alcuna risorsa specifica, per l’anno 2000.

I membri del “Club di Roma” non erano poi un gruppo di iettatori misteriosi, sinistri e anonimi. Piuttosto, erano un gruppo di trenta intelletti riflessivi e attenti agli interessi pubblici provenienti da dieci Paesi diversi. Il gruppo comprendeva scienziati, economisti, educatori e industriali. Essi si erano incontrati su stimolo del dottor Aurelio Peccei, un industriale italiano affigliato alla FIAT e alla Olivetti.

I membri del gruppo erano tutti preoccupati perché l’umanità si trovava di fronte ad una condizione futura di grande complessità, provocata da una serie di problemi interconnessi che le istituzioni e la politica tradizionale non sarebbero stati in grado di comprendere singolarmente, figurarsi di affrontarli nel loro complesso. La tesi di base del loro lavoro era che era facile non rendersi conto della crescita esponenziale a lungo termine. La natura umana induce la gente a presumere in piena innocenza che i tassi di crescita siano lineari. Il libro quindi postulava che la continuazione della crescita esponenziale degli anni ‘70 nel campo della popolazione mondiale, della produzione industriale, del consumo di risorse agricole e naturali e dell’inquinamento prodotto da tutto ciò, avrebbe portato a gravi limitazioni su tutte le risorse globali note in un periodo compreso tra il 2050 e il 2070.

La genesi di questo libro è stata una serie di primi incontri tenuti dal Club di Roma nel 1968. Questi incontri culminarono nella decisione di dar vita a un’impresa rimarcabilmente ambiziosa. L’obbiettivo era esaminare i complessi problemi che assillano “gli umani di ogni nazione; la povertà nel bel mezzo dell’abbondanza, il degrado dell’ambiente, la perdita della fiducia nelle istituzioni, l’espansione urbana incontrollata, ecc.”.

La prima fase del progetto di analisi delle condizioni umane prese forma nel 1970. Il gruppo chiese ad una squadra di Modellatori Economiche del MIT di prevedere, in termini approssimativi, a quali pressioni sarebbe stato sottoposto il globo se le tendenze di crescita di allora fossero continuate per altri 100 anni. Questa ricerca fu finanziata dalla Fondazione Volkswagen.

All’epoca, la tecnica di condurre modellazioni integrate al computer era piuttosto nuova. La tecnica era chiamata “Dinamica sistemica” [nel testo originale: “System Dynamics” - N.d.T.], e prevedeva che il modello, le sue componenti e i suoi risultati tenessero conto di vari elementi correlati e di cicli di ritorni positivi e negativi. I risultati iniziali di questo lavoro di modellazione furono abbastanza allarmanti da indurre i membri del Club di Roma a pubblicarli, intitolando il libro “I limiti alla crescita”. Il libro fu pubblicato da Potomac Associates, un’organizzazione apartitica di ricerca e analisi che tentava di incoraggiare vivamente l’indagine relativa ad argomenti di politica pubblica.

Il libro, coscienziosamente, riconosceva che il modello era ancora allo stato “preliminare”. Era necessaria una analisi molto più dettagliata per raffinare le questioni che tale modello sollevava. La decisione di pubblicare i risultati, nel loro stato ancora grezzo, era stata dettata dal desiderio di rendere rapidamente di pubblico dominio l’argomento. Questo avrebbe, nelle speranze, attirato sul lavoro l’attenzione critica e scatenato in ogni società il dibattito circa i cambiamenti necessari per evitare gli elementi catastrofici che il modello indicava si sarebbero verificati per il 2070, in assenza di interventi correttivi.

Mentre molti lettori giunsero a varie supposizioni “immaginarie”, le conclusioni raccolte nel libro erano piuttosto semplici. La prima conclusione era che se la tendenza alla crescita si fosse mantenuta invariata, si sarebbe raggiunto in un qualche momento entro i prossimi 100 anni un limite alla crescita goduta dal nostro pianeta. Questo avrebbe portato a un improvviso e incontrollabile declino tanto nella popolazione quanto nella capacità industriale.

La seconda conclusione chiave era che le tendenze alla crescita potevano essere modificate. Inoltre, se si fossero messe in atto le modifiche adeguate, il mondo avrebbe potuto ottenere una condizione di “stabilità ecologica” che si sarebbe rivelata sostenibile anche nel lontano futuro.

La terza conclusione era che il mondo si sarebbe potuto avviare su questo secondo percorso, ma che quanto prima fosse iniziato lo sforzo, tanto maggiori sarebbero state le possibilità di ottenere questo successo “ecologicamente stabile”.

Il libro, nella sua totalità, è ben scritto. Richiede solo poche ore per essere letto. Lo raccomanderei decisamente a chiunque. E’ un’importante miscela di semplici, sperimentate e vere leggi economiche combinate con una terrificante dose di logica. Senza alcun dubbio, vengono presentate alcune serie premonizioni catastrofiche che il nostro mondo dovrebbe affrontare se le conclusioni di questo lavoro di modellazione venissero ignorate e le tendenze chiave continuassero a crescere con un moto esponenziale contrapposto ad uno lineare. Ma, il libro presenta una visione essenzialmente ottimistica di quanto facilmente questi limiti alla crescita potrebbero essere alterati, se si compissero sforzi concreti in uno stadio precoce, piuttosto che tentare di mettere in atto tali cambiamenti troppo tardi.

L’aspetto più sbalorditivo del libro è quanto accurate siano molte delle estrapolazioni delle tendenze di base che, alla fine, rendono i limiti indicati ancora validi trent’anni dopo. Nei fatti, per essere un lavoro che è stato irriso ed attaccato da così tanti economisti dediti allo studio dell’energia (le previsioni dei quali non hanno retto altrettanto bene alla prova del tempo), nel libro non c’è nulla che io riesca a trovare che sia stato fino ad ora anche solo vagamente invalidato. Al contrario, gli avvertimenti circa quanto potenti possano essere i tassi di crescita esponenziale, sono ancora attuali. La tesi secondo la quale è facile fraintendere questo tipo di crescita è stata provata anche dai volumi di critiche mal condotte che il rapporto del Club di Roma ha generato.

Sono già trascorsi 30 dei 100 anni dei quali si parla in quello studio. Ed il mondo è cresciuto proprio alla velocità indicata nel libro. Il divario tra ricchi e poveri non si è affatto ridotto. Al contrario, il divario tra “chi ha” e “chi non ha” è cresciuto in modo considerevole. E’ interessante osservare quanto gli autori del libro sarebbero oggi orripilati dall’andamento della popolazione dopo il 1972. La pressione su molte delle nostre preziose risorse si sta già facendo seria. Se queste genti avessero anche iniziato a migliorare significativamente i propri standard di vita, dato il tasso di espansione delle popolazioni povere del mondo, nel 2000 tale pressione sarebbe stata ben peggiore. Il crescente divario tra ricchi e poveri si è rivelato una valvola di sicurezza del tutto casuale per molte risorse potenzialmente scarse.


Il mondo nel 2000

Siamo quasi ad un terzo della strada di 100 anni indicata dal Club di Roma. Nel 1970, la popolazione mondiale assommava a 3,4 miliardi. Di questi, 1,2 miliardi viveva nei Paesi “più sviluppati”, mentre 2,2 miliardi risiedevano nei Paesi “meno sviluppati”. Il rapporto tra ricchi e poveri era di 35 a 65.

Otto dei venti Paesi più popolati erano società industriali moderne. La loro popolazione complessiva assommava a 787 milioni, che all’epoca consisteva nel 25% della popolazione globale. I “Quattro Grandi” dell’Europa (Inghilterra, Germania, Francia e Italia) contavano 161 milioni di persone. Tutti si collocavano tra i venti Paesi più popolosi.


Tre decenni più tardi, la popolazione totale mondiale conta, approssimativamente a 6,4 miliardi. Considerando i dati inaccurati dei censimenti in molti dei Paesi ad elevata crescita del mondo, tale cifra potrebbe essere ancora maggiore. La crescita della popolazione dei “Quattro Grandi” dell’Europa è stata una delle più lente nel mondo. Eppure, anche in questi Paesi la crescita è stata del 61%, fino a raggiungere i 260 milioni. Eppure, tre dei “Quattro Grandi” non fanno più parte dei primi venti Paesi più popolosi del mondo, dal momento che molti Paesi poveri a crescita più rapida ne hanno preso il posto.

Nel 2000, la popolazione della Cina e dell’India, da sole, equivale a quella della popolazione dell’intero mondo meno sviluppato del globo trent’anni fa. In tre decenni, il divario tra ricchi e poveri si è ampliato da un rapporto di 35 a 65 fino ad un rapporto di 20 a 80! Dal momento che tutte le popolazioni povere del globo si stanno espandendo velocemente, è probabile che questo divario cresca ancora col passare dei rimanenti 70 anni del lasso di tempo indicato dal Club di Roma, a meno che vengano rapidamente prese delle contromisure per modificare questa allarmante tendenza.

Il testo, in “I limiti alla crescita”, menzionava la possibilità che la popolazione globale possa assommare a sette miliardi al volgere del secolo. Il libro conteneva anche un grafico che mostrava la crescita esponenziale della popolazione mondiale a partire dal 1960. Secondo questa linea di tendenza, la popolazione mondiale raggiungerebbe i sei miliardi nel 2000 (vedi Tabella 1).

 

TABELLA 1

Popolazione mondiale

Fonte: “I limiti alla crescita” di Donella H. Meadows/Dennis L. Meadows e Jørgen Randers/William W. Behrens III
Simmons & Company International

 

La stima più aggiornata del U.S. Census Bureau, per quanto riguarda la popolazione reale del 2000, è di 6,4 miliardi di abitanti, quasi equidistante tra la stima del Club di Roma e quella delle Nazioni Unite. (Dal momento che la qualità e l’accuratezza dei dati per le regioni del globo a più rapida crescita potrebbero facilmente avere un tasso di imprecisione oscillante tra il 10% e il 15%, con una probabile approssimazione al ribasso rispetto al vero totale, potremmo essere parecchio più prossimi ai sette miliardi di quanto chiunque ritenga di sapere).

I tassi di natalità in molti Paesi ricchi sono caduti in modo deciso negli ultimi trent’anni, mentre la Cina ha messo in atto la sua politica del figlio unico. Se così non fosse stato, la popolazione mondiale conterebbe già di circa 2,3 miliardi di individui in più di quanti effettivamente ne conti oggi.

Il Pakistan e il Bangladesh sono i più poveri Paesi al mondo. Nel 1970, si collocavano in nona e decima posizione tra i Paesi più popolati della Terra, con 132 milioni di persone. Trent’anni dopo, questi due Paesi poveri hanno entrambi guadagnato posizioni, salendo in settima e in ottava posizione nella classifica mondiale con una popolazione complessiva di quasi 300 milioni di persone, più degli Stati Uniti d’America.

Il libro riportava in dettaglio i tassi di crescita dell’economia e della popolazione di dieci Paesi nel 1968 e come questi si riflettevano nel PIL pro-capite di ognuno di essi. Il rapporto ricorreva alla semplice aritmetica per calcolare i valori estrapolati del PIL pro-capite dal 1968 al 2000. Mentre il testo affermava: «i valori riportati… quasi certamente non diverranno realtà. Non si tratta di previsioni. Essi, semplicemente, indicano la direzione generica verso la quale il nostro sistema, così com’è strutturato, ci sta portando. Il rapporto dimostrava che il processo di crescita economica, così come si sta verificando ora, sta inesorabilmente ampliando il divario assoluto tra nazioni ricche e nazioni povere nel mondo». Le Tabelle 2 e 3 mostrano in dettaglio i dati del 1968 e il PIL estrapolato del 2000.

 

TABELLA 2

Tassi di crescita dell’economia e della popolazione

Paese

Popolazione
in
milioni (1968)

Tasso di crescita medio annuale
della popolazione
(1961-68) (% annuale)

PIL pro-capite
(1968)
in dollari statunitensi

Tasso di crescita medio annuale
del PIL pro-capite
(1961-68) (% annuale)

Repubblica Popolare Cinese

730

1,5

90

0,3

India

524

2,5

100

1,0

URSS

238

1,3

1100

5,8

Pakistan

201

1,4

3980

3,4

Indonesia

113

2,4

100

0,8

Giappone

101

1,0

1190

9,9

Brasile

88

3,0

250

1,6

Nigeria

63

2,4

70

0,3

Repubblica Federale Tedesca

60

1,0

1970

3,4

Fonte: “I limiti alla crescita” di Donella H. Meadows/Dennis L. Meadows e Jørgen Randers/William W. Behrens III
Simmons & Company International

 

TABELLA 3

PIL estrapolato per l’anno 2000

Paese

PIL pro-capite
(in dollari statunitensi)

Repubblica Popolare Cinese

100

India

140

URSS

6330

U.S.A.

11000

Pakistan

250

Indonesia

130

Giappone

23200

Brasile

440

Nigeria

60

Repubblica Federale Tedesca

5850

Fonte: “I limiti alla crescita” di Donella H. Meadows/Dennis L. Meadows e Jørgen Randers/William W. Behrens III
Simmons & Company International

 

Mentre gli autori stessi non sono riusciti a cogliere la potenza del combinare la crescita estrapolata della popolazione con la crescita industriale, è sorprendente osservare quali cifre, alla fine, sono diventate realtà. Il 2000 non è più una previsione, è già arrivato. Come esposto in dettaglio nella Tabella 4, il PIL pro-capite annuale reale di molti Paesi era, nei fatti, ben oltre le estrapolazioni presentate in “I limiti alla crescita”. In compenso, i dieci Paesi si sono avvicinati a una proiezione che gli autori del libro non credevano sarebbe potuta divenire realtà in soli trent’anni.

Come gli autori di “I limiti alla crescita” dissero chiaramente trent’anni fa, i tassi di crescita esponenziale possono essere molto potenti. Essi possono generare curve di crescita che improvvisamente decollano, allorché gli incrementi del 3% applicati a numeri ridotti improvvisamente divengono incrementi del 3% applicati a un valore base molto più grande. Questa crescita esplosiva può rapidamente diventare quasi travolgente, fino a quando le potenti forze costituite dai limiti fisici, le conseguenze finali impreviste di tali velocità di crescita, compaiono improvvisamente “dal nulla” per portare a una brusca interruzione della tendenza.

 

TABELLA 4

Confronto tra il PIL pro-capite estrapolato per il 2000 e quello reale del 1999

 

In dollari statunitensi del 1968

 

Stima estrapolata

Dati reali del 1999

Cina

100

240

India

140

112

Stati Uniti d’America

11000

9080

Pakistan

250

110

Indonesia

130

210

Giappone

23200

9700

Brasile

440

900

Nigeria

60

100

Germania

5850

6806

Nota: i dati riferiti all’URSS non compaiono in quanto lo smembramento della nazione rende difficile una accurata comparazione.

 

Da un punto di vista energetico, il mondo consumava 111 milioni di barili di petrolio equivalente (BOE) al giorno nel 1970, quando fu scritto “I limiti alla crescita”. La crescita energetica mondiale era già passata da 30 milioni di BOE nel 1940 a 67 milioni di BOE nel 1960 e aveva quasi raddoppiato quel dato in un altro decennio. Nel 1980, la crescita energetica totalizzava 147 milioni di BOE al giorno; nel 1990 raggiungeva i 164 milioni di BOE al giorno e si sta rapidamente avvicinando ai 180 milioni di BOE al giorno nel 2000. La sottostante Tavola 1 illustra questa crescita.

 

TAVOLA 1

Crescita dei consumi energetici mondiali

Simmons & Company International

 

Mentre il mondo non è chiaramente rimasto senza energia nel 2000, questa crescita dei consumi energetici passata si è verificata mentre l’ex Unione Sovietica, il terzo maggiore consumatore di energia della Terra nel 1970, ha collassato, provocando una caduta di una terzo nel proprio impiego di energia nell’ultimo decennio. Se l’ex Unione Sovietica avesse proseguito nella sua crescita dei consumi sullo stile degli anni ‘80, il mondo si avvicinerebbe ad un consumo energetico giornaliero di 200 milioni di barili di petrolio equivalente nel momento in cui entriamo nel nuovo secolo.

Come mostrato nella Tabella 5, molti dei Paesi in via di sviluppo ha tassi di crescita compresi tra il 3% e il 6% negli ultimi trent’anni e molti di questi Paesi usano ancora a mala pena energia in termini pro-capite, in confronto alle parti prospere del mondo. Se il divario tra ricchi e poveri si fosse ridotto negli ultimi trent’anni e nel contempo l’ex Unione Sovietica avesse continuato a prosperare, il mondo potrebbe avere facilmente raggiunto un consumo energetico giornaliero compreso tra i 220 e i 240 barili di petrolio equivalente nel 2000, ammesso che si potesse procurare una tale quantità di energia.

 

TABELLA 5

Consumi di energia primaria
(milioni di tonnellate di energia in barili di petrolio equivalente)

Paese

1972

1980

1990

1999

Tasso di crescita

Nord America

1948

2419

2133

2432

+0,8%

America Latina

126

341

369

497

+3,0%

Europa

1523

169

1741

1801

+0,6%

Medio Oriente

79

117

254

380

+6,0%

Africa

96

164

206

261

+3,8%

Giappone

311

360

458

507

+1,8%

Australia

64

86

101

117

+2,3%

Asia

214

338

551

878

+5,4%

Cina

335

453

668

753

+3,1%

URSS

837

1169

1398

908

+0,3%

Totale

5631

6904

7856

8534

+1,6%

 

Milioni di barili di petrolio equivalente al giorno

117

144

164

178

 

Simmons & Company International

 

Data la massiccia crescita dell’impiego totale di energia che si è in realtà verificato in appena trent’anni, è anche illuminante esaminare il ricorso alle diverse fonti energetiche nello stesso periodo, distinguendole per categoria. la Tabella 6 evidenzia in dettaglio i vari componenti dell’apporto delle varie fonti energetiche negli anni 1972, 1980, 1990 e 1999. Il ricorso al petrolio è sceso dal 46% del totale nel 1972 al 41% nel 1999, ma questo calo è avvenuto quasi interamente tra il 1972 e il 1980, quando il prezzo del petrolio crebbe di dieci volte. Da allora, il petrolio è rimasto in una fascia stabile.

 

TABELLA 6

Ricorso globale alle diverse fonti energetiche

 

1972

1980

1990

1999

Petrolio

46%

43%

40%

41%

Gas naturale

19%

19%

23%

24%

(Idrocarburi totali)

65%

62%

63%

65%

Carbone

29%

29%

28%

25%

Nucleare

0,7%

3%

7%

8%

Idroelettrico

0,6%

6%

2%

2%

Totale

100

100

100

100

Simmons & Company International

 

Il ricorso al gas naturale è cresciuto dal 19% del 1972 al 24% del 1999; il carbone è sceso dal 29% al 25%. Il nucleare ha avuto una crescita esplosiva, quando questa fonte energetica era appena stata introdotta nel 1972. Alla fine del XX secolo, il nucleare rappresentava l’8% dell’impiego mondiale totale di energia. Sebbene riguardasse solo una manciata di Paesi che avevano perseguito attivamente un piano di energia nucleare come parte delle loro strategie energetiche a lungo termine.

E’ anche interessante valutare quale sarebbe stato il possibile peso sulle nostre risorse petrolifere e gassose se il nucleare non fosse stato commercializzato, in particolare qualora il divario tra ricchi e poveri si fosse ridotto in quel lasso di tempo.

La Tabella 7 elenca in dettaglio l’impiego mondiale di petrolio negli ultimi sessant’anni, arco di tempo nel quale crebbe dai poco più di 5 milioni di barili al giorno del 1960 ai 75 milioni di barili al giorno del 2000. Dal momento che il petrolio è ancora l’unica fonte di energia che fornisce combustibile per i trasporti, il suo impiego dovrebbe continuare a crescere ben addentro la metà del XXI secolo.

 

TABELLA 7

Consumi petroliferi globali

 

1940

1950

1960

1970

1980

1990

2000

Stati Uniti d’America

3,1

7,1

12,3

14,4

16,5

16,3

19,0

Canada

0,2

0,4

0,9

1,5

1,9

1,7

1,8

Europa Occidentale

0,8

1,5

4,2

12,6

13,9

13,4

14,6

Giappone

0,1

0,1

0,6

4,4

4,9

5,3

5,8

Australasia

0,1

0,2

0,3

0,7

0,8

0,8

1,0

Totale OCSE

4,3

9,3

18,3

33,6

38,0

37,5

42,2

 

America Latina
(compreso il Messico)

0,3

0,9

1,7

3,5

4,6

5,0

6,6

Africa, Medio Oriente e Asia

0,3

0,8

1,6

2,8

6,3

10,8

16,4

Cina

0,1

0,1

0,2

1,0

1,8

2,3

4,6

Totale

0,7

1,8

3,5

7,3

12,7

18,1

27,6

 

URSS e Europa Orientale

0,4

0,9

2,8

7,4

10,9

9,8

5,2

Totale

5,3

12,0

22,1

39,5

61,6

65,4

75,0

Fonte: BP, analisi statistica dell’energia
Simmons & Company International

 

Se è già sconcertante vedere l’uso di una risorsa non rinnovabile come il petrolio crescere da 5 a 75 milioni di barili al giorno, immaginate la cifra che sarebbe stata raggiunta nel 2000 se il divario tra ricchi e poveri nel mondo fosse rimasto al rapporto 35/65 degli anni ‘70.

Ci sono molti fatti non correlati all’energia che mettono in risalto il notevole passo compiuto dal mondo tra il 1970 e il 2000 e quanti più beni e cibo consumiamo oggi.

La tecnologia ha compiuto i più grandi passi immaginabili negli ultimi trent’anni, dando vita ad invenzioni che non era neppure possibile sognare nel 1970! Ma, nello stesso periodo, è aumentata vertiginosamente la quantità di gente malnutrita che vive al di sotto del livello di povertà. Globalmente, la produzione agricola netta sta crescendo alquanto più lentamente della popolazione. Col crescere della popolazione mondiale, è disponibile sempre meno acqua dolce rinnovabile per ogni persona. La desalinizzazione dell’acqua marina, fino ad ora, ha impedito a questo problema di divenire una crisi.

Anche il ruolo del pesce nella dieta umana è degno di nota. Il pesce è storicamente servito come fonte poco costosa e ampiamente disponibile di proteine e nutrienti essenziali, compreso un tipo di acido grasso importantissimo per lo sviluppo del cervello dei bambini.

Negli ultimi trent’anni, si è riusciti a mantenere abbastanza stabile il pescato globale. Ma gran parte di questa apparente stabilità deriva da un diffuso impiego dell’acquacoltura, che fornisce oggi un pesce ogni tre tra quelli consumati nel mondo. Nel frattempo, la composizione del pescato globale si va rapidamente spostando verso pesci di minori dimensioni e meno appetibili. Alcune specie altamente proteiche sembrano già avviate all’estinzione commerciale o perfino biologica.

Così, il mondo se l’è cavata nonostante la fine del XX secolo. Ma diversi segnali in tutte le aree problematiche individuate in “I limiti alla crescita” non sono di buon auspicio per quanto riguarda il cavarsela per altri trent’anni, figuriamoci fino al 2050 o al 2070.

Il messaggio più profondo che il Club di Roma spingeva appassionatamente la gente a considerare è la forza di questo tipo di crescita esponenziale e il pericolo del divario esistente tra i ricchi e i poveri del mondo. Quel messaggio è ancora vivo e vitale. Il 26 settembre del 2000, gli economisti di punta della Banca Mondiale hanno lanciato un altro avviso relativo alla necessità impellente di cominciare a ridurre quello che era un divario tra ricchi e poveri, ma che è cresciuto fino a diventare un abisso tra ricchi e poveri.

Secondo questi economisti, mentre l’economia globale è cresciuta del 2,3% all’anno tra il 1965 e il 1990, il divario tra Paesi ricchi e Paesi poveri è dieci volte maggiore di quanto fosse trent’anni fa. Entrambi erano misurati in termini pro-capite, e il divario tra ricchi e poveri sta crescendo anche nell’ambito interno di molti Paesi ricchi.

Perché questo messaggio non dice nulla a molti? Ci vuole uno scrollone per dar vita al dibattito significativo su come risolvere la questione? Il Club di Roma ha colto correttamente il quadro complessivo. Siamo stati noi altri a non comprenderlo!


Il libro e la sua controversia

Perché questo libro è diventato così controverso e perché così tanta gente così eloquente ed apparentemente bene informata ne continua ad attaccare il contenuto additandolo come sbagliato quando, nei fatti, tutte le sue principali conclusioni sono assolutamente attinenti? Fino ad ora, non è ancora emersa una sola tendenza che possa alleviare le preoccupazioni presentate dal Club di Roma. Perché il libro è stato accolto da una tale tempesta di critiche, invece di dare il via al profondo dibattito che gli autori speravano che si sarebbe aperto?

Posso solo supporre alcune risposte, poiché non ho mai seguito il dibattito nel corso di tutti questi anni.

La mia supposizione tocca due aree: primo, fa parte della natura umana ignorare l’impatto degli eventi le conseguenze dei quali ricadono sul lontano futuro. Il “qui ed ora” domina il modo in cui la maggior parte della gente tende naturalmente a pensare. Se un profeta capitasse in una città prevedendo una grave alluvione a distanza di dieci anni, e l’estate successiva fosse particolarmente siccitosa, sarebbe proprio della natura umana sminuirlo e attribuirgli il torto, ignorando il fatto che il momento della sua previsione è ancora nove anni più in là da venire. Questa caratteristica della natura umana è stata rappresentata in una pubblicità del New England Life. L’annuncio mostrava due signori in un prestigioso circolo maschile, con un bicchiere di brandy in mano. Uno chiede: «Perché uno dovrebbe farsi un’assicurazione sulla vita?». Mentre veniva posta la domanda, un massiccio trofeo con una testa d’alce si era già staccato dalla parete del circolo e, cadendo, stava a pochi centimetri dalla testa di colui che stava parlando! Siamo portati a pensare che causa ed effetto debbano coincidere immediatamente. La natura umana non è adatta ad affrontare reazioni distanti nel tempo, particolarmente quando il ritardo è di decenni.

Gli autori di “I limiti alla crescita” si occupano di questo fenomeno dell’attenzione a breve termine con il grafico rappresentato nella Tabella 8.

 

TABELLA 8

La prospettiva umana

 

Simmons & Company International

 

La tabella mostra la relazione tra “tempo” e “spazio”. Nell’angolo in basso a sinistra, la famiglia rappresenta il limite più prossimo dal punto di vista dello spazio, mentre “la prossima settimana” è il limite più prossimo dal punto di vista del tempo. Il quadrante più a destra rappresenta il mondo dal punto di vista spaziale e 100 anni dal punto di vista temporale. L’opinione dell’autore è che quasi tutti si preoccupano dei limiti più prossimi tanto dal punto di vista dello spazio quanto da quello del tempo (ad esempio: «Cosa mangerò oggi?»). Pochi pensano mai a cosa potrebbe accadere al mondo intero in periodi di tempo molto lontani. Gli autori si sono occupati dello spazio indicato nell’angolo in alto a destra del diagramma. Sembra chiaro che pochi lettori del libro si sono concentrati su questa visione globale e su tempi così lunghi. Al contrario, essi hanno letto nel libro un messaggio differente, lasciando che l’immaginazione li trascinasse verso il riquadro inferiore sinistro del diagramma.


Un importante evento ha poi alimentato la confusione circa i reali argomenti del libro. “I limiti alla crescita” finì per essere pubblicato poco prima che il mondo vivesse la Crisi Petrolifera del 1973. Nel panico che conseguì a quella crisi, l’avvertimento a lunga distanza che gli autori del libro tentavano di lanciare (in modo che potessero essere avviati cambiamenti nella crescita della popolazione e della produzione industriale per evitare i disastri sottintesi per il lontano futuro) si confuse nel terrore immediato che il punto di arrivo di quelle carenze potesse essere una drastica riduzione delle forniture petrolifere con cento anni di anticipo rispetto a quanto questo “misterioso” e perfino clandestino Club di Roma stava tentando di discutere.

La mia altra supposizione è che alcuni dei critici peggiori e più impegnati di questo libro fossero persone che negli anni ‘70 avevano appassionatamente fatto proprio il concetto che il mondo si trovasse di fronte ad immediate carenze. Dopo tutto, nel 1980 c’erano molti importanti analisti nel campo dell’energia che sostenevano che un prezzo del petrolio compreso tra i 50 e i 100 dollari statunitensi fosse quasi inevitabile. Quando il divario tra domanda in flessione e forniture in crescita creò una “bolla” di petrolio [nel senso economico di “bolla speculativa” - N.d.T.], il prezzo del petrolio si collocò tra i 15 e i 20 dollari statunitensi al barile per gran parte di un ventennio. Allorché i prezzi elevati erroneamente previsti non si materializzarono, l’imbarazzo di essersi sbagliati trasformò l’intero gruppo di esperti nel campo dell’energia in rabbiosi critici di “I limiti alla crescita” e in appassionati e convinti sostenitori del “fatto” che i prezzi sarebbero stati bassi per sempre. Deve essere stato facile deviare verso la stupidità del Club di Roma, parte delle lamentele circa i madornali errori da loro commessi. Questo è l’equivalente di quanto intendevo parlando del lamentarsi col barista per i postumi della sbornia!

Tristemente, il dialogo e l’accresciuta analisi in profondità che quelli del Club di Roma speravano così tanto che sarebbero nati per via della loro pubblicazione, non si sono mai verificati a fronte di critiche sempre maggiori. La prima fase del progetto di analisi delle condizioni umane divenne per un incidente il capitolo finale di questa tesi. Col crescere del discredito di questo lavoro, pochi si presero anche solo la briga di misurare la velocità del cambiamento. Ancora meno ricordarono il vero messaggio del libro.

Il Club di Roma esiste ancora. Non è “appassito”, sebbene il suo sito web riconosca che la maggior parte della gente supponga che esso ha cessato di funzionare dopo la morte del suo fondatore carismatico, Aurelio Peccei, nel 1984. Ha commissionato oltre una dozzina di altri rapporti, dalla prima pubblicazione di “I limiti alla crescita”; però, nessuno di essi ha attratto altrettanta attenzione.

Il numero dei membri del Club di Roma è ancora limitato a un centinaio. I convegni si tengono ancora su invito dei membri. Il suo rapporto più recente è stato pubblicato nel 1995 e riguardava la disoccupazione mondiale. Al suo ultimo “convegno annuale”, tenutosi a Porto Rico nel 1996, sono stati presentati rapporti “temporanei” sul problema della governabilità o della sua mancanza e sul problema del riscaldamento globale.

Così, il Club è intatto, ma le appassionate preoccupazioni sollevate da “I limiti alla crescita” si sono chiaramente raffreddate. Il dubbio se le questioni sollevate nel 1972, dando vita ad un dibattito così intenso al momento della pubblicazione, fossero veramente corrette si è perso nel tempo, e incombe come un tizzone che arde invisibile sotto la cenere.


Estrapolare il mondo oltre il 2000

Sono passati trent’anni da quanto fu svolta la ricerca originale alla base del libro. Il mondo è ora al 30% del suo percorso verso lo scenario da giorno del giudizio dipinto seguendo le estrapolazioni dei precedenti 100 anni. Come il libro ha accuratamente previsto, la crescita della popolazione si è espansa. Era quasi inevitabile dal momento che la maggior parte dei genitori del 2000 erano già nati quando il libro fu scritto.

Cosa possiamo supporre dello stato del mondo nei prossimi trent’anni, proseguendo questo esercizio di estrapolazione? Sarebbe realistico supporre che il divario tra ricchi e poveri non si ridurrà mai? Il mondo potrebbe rimanere in pace se il divario non si riducesse o addirittura si ampliasse? E, se si riducesse, come la dirigenza della Banca Mondiale ha avvertito che dovrà succedere per mantenere il mondo in uno stato di prosperità e pace, siamo davvero certi che esistono sufficienti risorse per consentire tali cambiamenti?

Queste sono le questioni che dovrebbero nominare le discussioni specialistiche dei pianificatori della politica pubblica mondiale. Almeno gli aspetti energetici che tali questioni sollevano meritano di essere esaminati da vicino. Per estendere le analisi comprese in “I limiti alla crescita” su un periodo di altri 30-50 anni non richiede più un supercomputer. Ogni calcolatrice tascabile è oggi in grado di calcolare i tassi di crescita composti. Una volta fatta una semplice estrapolazione delle tendenze di crescita di popolazione, attività industriale, consumo di risorse tanto agricole quanto naturali e inquinamento risultante, gli allarmi sollevati sono oggi, col beneficio dei 30 anni aggiunti, più sconfortanti di quanto sostenessero tre decenni fa gli autori di “I limiti alla crescita”.

Però, devono ancora passare “70 anni” prima che venga raggiunto il limite del 2070, che il modello del MIT suggeriva essere la fine di ogni ulteriore crescita. Forse è irrilevante che tutti i punti di riferimento eretti come bandiere rosse in “I limiti alla crescita” siano stati finora raggiunti. Dopo tutto, c’è un sacco di tempo per correggere ogni tendenza veramente pericolosa. Giusto?

Nel capitolo del libro che definisce il potere ingannatorio della crescita esponenziale e l’apparente repentinità con la quale si avvicina a un limite fisso, gli autori descrivono il quesito dello Stagno dei Gigli. In questo quesito, lo stagno dei gigli contiene un giglio potenzialmente virulento che raddoppia visibilmente le proprie dimensioni ogni giorno. Se il giglio cresce incontrollato coprirà l’intero stagno in trenta giorni, soffocando ogni altra forma di vita nello specchio d’acqua. Se uno scettico aspettasse fino a che il 50% dello stagno fosse coperto prima di prendere dei provvedimenti per salvare lo stagno, quando agirebbe? La risposta: il ventinovesimo giorno del mese! Ma a quel punto sarebbe troppo tardi.

Il mondo può discutere sul momento in cui l’azione correttiva deve cominciare, se la crescita esponenziale mostra improvvisamente tutti i classici segni dell’incombente superamento dei limiti. Ma ognuno dovrebbe riconoscere che aspettare fino al “proverbiale ventinovesimo giorno” è uno tra i peggiori errori classici e irrimediabili.


I limiti della crescita energetica

Non dispongo di buoni dati o conoscenze a proposito dei consumi agricoli o non energetici. Una lettura casuale dei possibili limiti futuri per quanto riguarda l’acqua, i terreni arativi, le riserve ittiche, ecc. porta a chiedersi come il mondo potrebbe affrontare anche solo la crescita della popolazione e la riduzione del divario tra poveri e ricchi.

Ma anche il concentrarsi semplicemente sulle questioni energetiche che dovrebbero preoccupare il mondo, evidenzia che il mondo stesso non può probabilmente aspettare altri 30 anni prima di cominciare a riflettere se potrebbe iniziare a incontrare problemi e limiti netti ai consumi di energia non rinnovabile. I tempi per mettere in atto qualsiasi azione correttiva o implementare qualsiasi energia alternativa sono semplicemente troppo lunghi.

Si prendano le esigenze energetiche della Cina come esempio del problema. Questa gigantesca sacca di popolazione si sta sforzando di rimuovere le manette della povertà sofferta per l’intero XX secolo. Ci sono ragioni per credere che per il 2030, o almeno per il 2050, la Cina potrebbe emulare il miracolo economico giapponese del 1960, o addirittura potrebbe divenire come il Giappone odierno. Come minimo, la Cina potrebbe diventare l’equivalente dell’attuale Tailandia, o Grecia, o Turchia.

Se una simile trasformazione dovesse verificarsi, le risorse mondiali sono sufficienti perché il miracolo avvenga in sicurezza?

E’ facile fare i calcoli. Negli ultimi trent’anni, la popolazione della Cina è cresciuta da 850 milioni di persone a 1,25 miliardi. Estrapolate questa crescita fino al 2030 e ci saranno quasi 2 miliardi di persone. Se la Cina compisse la scalata dalla semi-povertà odierna al limite anche inferiore dei consumi energetici dei Paesi dell’OCSE, significa che il consumo energetico della Cina crescerebbe di oltre sei volte, fino a raggiungere i 100 milioni di barili di petrolio equivalente al giorno, ovvero i due terzi dell’intero impiego di energia mondiale odierno.

Se la popolazione della Cina si avvicinasse ai 2 miliardi nel 2030, e la Cina mantenesse il suo bilanciamento attuale tra le varie forme di energia impiegate [nel quale quasi il 75% proviene dall’impiego di un carbone particolarmente “sporco”], il suo uso di carbone crescerebbe fino ad un livello del 50% superiore a quello di tutto il carbone consumato attualmente dal mondo intero! L’inquinamento che tale consumo provocherebbe costituisce esattamente il tipo di pericoli da inquinamento che il Club di Roma indicava 30 anni fa. Dal momento che l’enorme impiego di carbone della Cina, quando il vento soffia verso est, irrita già gli occhi in tutto il Giappone, usare così tanto carbone in più potrebbe letteralmente oscurare i cieli asiatici.

Se la Cina cessasse di impiegare quantità di carbone così elevate e simultaneamente migliorasse la propria economia, la crescita dei consumi di petrolio e di gas che ne deriverebbe sarebbe semplicemente sbalorditiva. Anche i più bramosi sostenitori del “petrolio a buon mercato per sempre” troverebbero impegnativo convincersi che tale crescita esplosiva possa realmente avvenire. E’ un classico esempio di Dinamica Sistemica che funziona proprio come dovrebbe.

Se anche l’india dovesse compiere una simile scalata al successo economico, i numeri per descrivere l’energia aggiuntiva richiesta finirebbero fuori dal grafico. Ma la Cina e l’India sono solo due dei molti Paesi che ancora possono essere definiti autentici “pigmei energetici”.

La Tabella 9 mostra la forza dell’estrapolazione energetica per sette dei principali Paesi definibili “pigmei energetici”. Essi comprendono la Cina, l’India, l’Indonesia, il Pakistan, il Bangladesh, le Filippine e l’Egitto. Nel 1970, la popolazione complessiva di questi sette Paesi era di 1,7 miliardi di persone. Nel 2000, essa assomma a 2,9 miliardi di persone. Il loro consumo di energia complessivo assomma oggi a 25,4 milioni di barili di petrolio equivalente al giorno. Mentre si tratta di un notevole volume energetico, esso ammonta a un minuscolo consumo pro-capite annuale di 3,2 barili di petrolio equivalente, un trentesimo di quanto si consumi oggi negli Stati Uniti.

 

TABELLA 9

Impatto di sette Paesi “pigmei energetici”

2000

Crescita estrapolata per il 2030
calcolata considerando la crescita della popolazione e del consumo energetico pro-capite avvenuta tra il 1970 e il 2000

 

Popolazione

 

 

Popolazione
(in milioni)

Consumo di energia
(in milioni di barili di petrolio equivalente al giorno)

Tasso di crescita

Popolazione nel 2030

Tasso di crescita energetica

Pro-capite

Totale barili di petrolio equivalente al giorno

Cina

1262

15680

1,5%

1942

0,2%

4,8

25540

India

1014

5750

2,0%

1853

2,8%

4,8

24370

Indonesia

224

1670

2,0%

406

3,6%

7,8

8680

Pakistan

141

770

2,6%

305

2,9%

4,7

3930

Bangladesh

123

210

2,2%

236

1,8%

1,0

650

Filippine

81

460

2,5%

170

3,4%

5,7

2650

Egitto

68

900

2,3%

135

1,3%

7,1

2630

Totale

2913

25440

100

5047

 

 

68450

Simmons & Company International

 

Estrapolando al 2030 la crescita della popolazione avvenuta nel periodo 1970-2000 in ciascuno di questi “Paesi pigmei”, la loro popolazione complessiva in quell’anno supera i 5 miliardi di persone. Estrapolando al 2030 anche la loro crescita nell’impiego di energia pro-capite avvenuta nel periodo 1970-2000, questi sette Paesi, da soli, consumerebbero 68 milioni di barili di petrolio equivalente al giorno di energia aggiuntivi. Ancor più sconvolgente è il pensiero che tale crescita possa aver luogo pur lasciando la popolazione di questi “pigmei energetici” ad una “dieta” energetica di meno di 5 barili di petrolio equivalente pro-capite all’anno. Questi Paesi arriverebbero così solo ad un quarto dell’impiego di energia dei più poveri tra i Paesi dell’OCSE nel 2000.

Per apprezzare appieno l’ordine di grandezza di ciò che gli autori di “I limiti alla crescita” definivano “un classico sovraccarico – laddove la crescita alla fine sopraffà improvvisamente il sistema”, si supponga semplicemente che per un qualche miracolo economico, quei sette “pigmei energetici” trovino un modo per portarsi tutti ad un livello equivalente almeno a quello del meno prospero dei Paesi dell’OCSE di oggi (che, nel 2000, consuma circa 20 barili di petrolio equivalente di energia pro-capite). Questo cambiamento, da solo, equivarrebbe a oltre 100 milioni di barili di petrolio equivalente al giorno di consumi energetici nel 2030, quasi la metà di quanto usi attualmente il mondo intero.

La Nigeria è un altro classico esempio di “pigmeo energetico” del XXI secolo. Le sue statistiche sono state lasciate fuori dal mio “gruppo dei sette” semplicemente per via della limitata disponibilità dei dati circa l’uso nigeriano di energia negli ultimi trent’anni. Ma esistono buone statistiche per le attuali necessità energetiche della Nigeria.

Come più esteso Paese africano, la Nigeria ha visto la propria popolazione crescere da 51 milioni di abitanti nel 1970 a 123 milioni di abitanti al momento della stesura di questo articolo. A dispetto della sua estensione, l’attuale impiego totale di energia nigeriano è inferiore a mezzo milione di barili di petrolio equivalente al giorno. Questo equivale a un misero 1,3 barili di petrolio equivalente per persona all’anno. Nonostante produca quasi 2 milioni di barili di petrolio al giorno, il Paese è messo in difficoltà dalla povertà. Esso si trova di fronte a una grave crisi energetica dovuta a una capacità di generazione elettrica in declino. La sua capacità di generazione elettrica totale installata è meno dell’1% di quella degli Stati Uniti. Ma, nel luglio 2000, solo il 25% di questa misera capacità di generazione era effettivamente funzionante. Il resto è in una condizione di malfunzionamento cronico.

Se la Nigeria alla fine convertisse la propria economia, come molti altri hanno fatto negli ultimi 50 anni, le necessità energetiche esponenziali anche di questo solo Paese sarebbero notevoli.

Ecco come funzionano le cose in Nigeria. Supponete che la crescita della popolazione nigeriana degli ultimi trent’anni continui per altri trent’anni. Nel 2030, la Nigeria avrebbe una popolazione di 300 milioni di persone. Se il suo PIL e i suoi consumi energetici crescessero fino al livello raggiunto oggi dal Messico (10 barili di petrolio equivalente pro-capite nel 1999), il fabbisogno energetico della Nigeria crescerebbe di quasi 20 volte fino a oltre 8 milioni di barili di petrolio equivalente al giorno.

Queste cifre evidenziano anche la contrazione delle esportazioni che molti importanti esportatori di energia potrebbero trovarsi a dover fronteggiare se la loro popolazione continuasse a crescere col migliorare del loro PIL.

L’intera economia nigeriana è oggi alimentata dalle sue esportazioni di petrolio e di gas naturale. Perché queste esportazioni rimangano stabili, la produzione di petrolio e gas dovrebbe almeno quintuplicarsi nei prossimo trentennio. Una quantità di altri produttori di petrolio sono stati in grado di ottenere una simile crescita della produzione, ma tutti sono partiti da una produzione iniziale insignificante. Dal momento che la Nigeria è oggi uno dei dieci maggiori produttori di energia del mondo, la probabilità che sia in grado di quintuplicare la sua produzione attuale rappresenta uno sforzo notevole. Più probabile è uno scenario nel quale la rapida crescita della prosperità del Paese, alla fine, porterà la Nigeria dall’essere un importante esportatore di energia a divenirne un importatore, come è accaduto alla Cina nell’ultimo decennio.

La Nigeria non è il solo grande esportatore di energia che si trova di fronte a questo stesso rischio. La questione potrebbe diventare un problema per l’intero gruppo dei produttori petroliferi dell’OPEC. Tutti hanno visto crescere in modo drammatico la propria popolazione. Nel 1970, la popolazione dei Paesi dell’OPEC assommava complessivamente a 245 milioni di persone. Nel 2000, la loro popolazione è cresciuta fino a 524 milioni di persone. Se la crescita trentennale della popolazione di ciascun Paese viene estrapolata al 2030, questi Paesi si trovano a dover sostenere una popolazione di oltre 1,1 miliardi di persone. La Tabella 10 mostra in dettaglio la crescita della popolazione dei produttori petroliferi dell’OPEC dal 1970 al 2000 e l’andamento demografico che produce una estrapolazione al 2030 di questi tassi di crescita.

Le implicazioni di questa crescita esplosiva della popolazione danno luogo ad interessanti domande relative al futuro energetico. Concentrate la vostra attenzione anche su uno solo dei Paesi dell’OPEC per ricavarne una classica immagine di alcuni possibili limiti alla crescita futura.

 

TABELLA 10

Crescita della popolazione di Paesi dell’OPEC

 

In milioni di persone

Paese

1970

1980

1990

2000

2030
estrapolazione

Indonesia

123

155

189

225

412

Nigeria

51

70

92

123

297

Iran

29

39

56

66

150

Algeria

14

19

25

30

69

Venezuela

10

15

19

24

58

Iraq

9

13

18

24

64

Arabia Saudita

6

10

15

22

81

Libia

2

3

4

5

13

Kuwait

1

1

2

2

6

Emirati Arabi Uniti

1

2

2

7

Totale

245

326

422

524

1157

Simmons & Company International

 

L’Arabia Saudita aveva solo 6 milioni di persone nel 1970. Nel 2000, la popolazione di quel Paese è salita a 22 milioni di persone. Il 43% dei 22 milioni di persone dell’Arabia Saudita hanno 14 anni o meno. Il tasso di fecondità del Paese è di 6,3 nati per donna. Se questa tendenza si mantiene, l’Arabia Saudita avrà una popolazione compresa tra i 45 e i 50 milioni di persone per il 2030. Se la crescita della popolazione verificatasi in Arabia Saudita dal 1970 al 2000 continuerà senza venire contrastata, quel Paese nel 2030 avrà invece 80 milioni di persone. A una analisi superficiale, questi numeri sembrano impossibili, ma essi evidenziano semplicemente quanto sia difficile monitorare tassi di crescita esponenziali piuttosto che lineari.

La maggior parte della gente pensa ancora che l’Arabia Saudita sia un Paese molto ricco. Al contrario, la sua economia è oggi nel caos per effetto dell’esplosione demografica che si è già verificata. Il Foreign Affairs del luglio 2000 riportava un articolo, intitolato “Saudi Arabia Over a Barrel”, che evidenziava la pressione sociale ed economica che questo fornitore chiave di energia si trova già oggi ad affrontare. Il debito nazionale dell’Arabia Saudita, nel 2000, supera già oltre il 100% del PIL. Il suo deficit del 1998, quando i prezzi del petrolio crollarono, era quasi l’11% del suo PIL. Il bilancio saudita del 2000 vede una crescita nella spesa pubblica del 12%, per cui anche prezzi del petrolio considerevolmente maggiori darebbero comunque luogo ad una previsione del deficit al 15% del bilancio totale.

Importanti città saudite devono affrontare regolarmente interruzioni nella fornitura di energia nei mesi estivi, e l’impianto di desalinizzazione di Jiddah, la seconda città del Paese in ordine di importanza, non riesce a tenere il passo della domanda di approvvigionamento idrico.

Se l’Arabia Saudita modernizzasse la propria economia al livello attuale degli Stati Uniti, le sue maggiori esigenze di energia elettrica spingerebbero i consumi interni di energia da oltre 2,1 milioni di barili di petrolio equivalente al giorno a oltre 12 milioni di barili di petrolio equivalente al giorno nel 2030. Se i 50 milioni di abitanti dell’Arabia Saudita (che potrebbero essere anche 80) volessero anche guidare, i consumi petroliferi conseguenti renderebbero difficile pensare che quel Paese possa continuare a essere anche il principale produttore petrolifero del mondo. Ho il sospetto che le cifre che descrivono la situazione demografica dell’Arabia Saudita sconvolgerebbero gli autori di “I limiti alla crescita”. Ma queste cifre rappresentano fatti reali, e il futuro che preannunciano, da un punto di vista energetico, non è roseo.

La demografia dell’Arabia Saudita non costituisce un’eccezione rispetto al resto dei Paesi dell’OPEC. Una attenta analisi della popolazione dei Paesi dell’OPEC, del loro impiego di energia elettrica (come approssimazione dell’uso totale di energia), della distribuzione delle fasce d’età e del tasso di fecondità di ognuno di essi, traccia la possibile contrazione energetica che il mondo potrebbe trovarsi di fronte se la popolazione di questi Paesi continuasse a crescere e alla fine riducesse il divario tra ricchi e poveri. La Tabella 11 mostra in dettaglio questi dati.

Con l’eccezione del Kuwait e degli Emirati Arabi Uniti, ogni produttore dell’OPEC ha un PIL pro-capite ben inferiore a quello di qualsiasi Paese dell’OCSE. Dal 25% al 50% della popolazione di molti di essi vive ancora al di sotto del limite della povertà. L’impiego medio di energia elettrica pro-capite è solo dal 15% al 20% di quello degli Stati Uniti.

Tutti questi Paesi hanno una rigogliosa popolazione nella fascia di età inferiore ai 14 anni, e i loro cittadini più anziani (quelli al di sopra dei 65 anni) costituiscono solo dal 2% al 5 % della popolazione complessiva. Molti dei Paesi hanno anche un tasso di fecondità compreso tra i 3 ed i 6 nati per donna.

 

TABELLA 11

Demografia e consumi energetici dei Paesi dell’OPEC

Paese

Popolazione in milioni (1998)

PIL

PIL pro-capite

Popolazione al di sotto del limite di povertà

consumi di energia elettrica

uso di energia elettrica

popolazione sotto i 14 anni

popolazione sopra i 65 anni

tasso di fecondità

Algeria

31,0

140

4600

23%

18,55

N/A

37%

4%

3,3

Libia

5,0

38

6700

N/A

17

3,4

36%

4%

3,8

Iran

65;0

339

5000

53%

80

1,2

36%

4%

2,5

Iraq

22,0

52

2400

N/A

28

1,3

44%

3%

5,1

Kuwait

2,0

44

22700

N/A

23

11,5

32%

2%

3,2

Nigeria

114,0

106

966

34%

14

0,1

45%

3%

6,0

Qatar

0,7

12

17100

N/A

5

7,1

27%

2%

3,4

Arabia Saudita

21,5

186

9000

N/A

95

4,4

43%

3%

6,3

Emirati Arabi Uniti

2,3

40

17400

N/A

18

7,8

31%

2%

3,5

Venezuela

22,0

195

8500

31%

73

3,3

33%

5%

2,6

Indonesia

216,0

602

2830

N/A

67

0,3

30%

5%

2,6

Equador

12,0

59

4800

35%

8

0,7

35%

5%

2,6

Fonte: U.S. Energy Information Agency
Simmons & Company International

 

Ciò che questi dati suggeriscono è che alcuni, o forse tutti, i Paesi produttori dell’OPEC potrebbero finire per consumare tutta l’energia che ora esportano, anche se incrementassero in modo consistente le rispettive produzioni. Alcuni di questi Paesi, senza dubbio, passeranno dall’essere esportatori di energia al diventarne importatori, ipotizzando che qualche altro Paese possa finire per avere abbastanza capacità produttiva da essere ancora un Paese esportatore nel 2030!

Può essere che questo scenario riferito all’OPEC sia mera fantasia o una tattica terrorifica gratuita? Solo il tempo ce lo dirà. Ma non è per nulla realistico dare per scontato che possano passare altri trent’anni durante i quali questi Paesi in difficoltà continuino a fornire preziosa energia al resto del mondo e nello stesso tempo essere ancora impantanati nella povertà.

Il fatto che il consumo interno di energia dei Paesi dell’OPEC possa erodere gradualmente la loro capacità di esportazione, solleva un pressante interrogativo. Il resto del mondo sarà in grado di trovare un sostituto in qualche altro luogo?

Potrà il mondo trovare un gruppo di altri Paesi che divengano l’“OPEC” del periodo 2020-2050? Ci saranno nuove forme di energia in grado di sostituire la perdita delle attuali forniture? Oppure, il resto del mondo riuscirà a diventare così tanto più efficiente dal punto di vista energetico entro il momento in cui si verificheranno i cambiamenti descritti? Ancora un volta, solo il tempo ci permetterà alla fine di conoscere la verità, ma queste sono esattamente le impressionanti questioni che il Club di Roma sperava che sarebbero state risolte.

“I limiti alla crescita” esponeva con un certo grado di dettaglio quanto può essere improvviso il cozzo contro un limite alla crescita. Immaginate l’impatto sul mercato energetico mondiale che si avrebbe se tutti i produttori dell’OPEC dovessero improvvisamente cessare di esportare energia e, quindi, divenirne potenzialmente importatori a causa di una semplice combinazione di rapida crescita della popolazione e di una contemporanea crescita nell’impiego di energia pro-capite.


Apporto delle diverse fonti energetiche ed inquinamento: il limite alla crescita definitivo?

Quando fu scritto “I limiti alla crescita”, le preoccupazioni umane per l’ecologia, l’ambiente e l’inquinamento erano nella loro fase infantile. La prima “Giornata della Terra” si tenne solo due anni prima che il libro venisse pubblicato. Crescendo, la consapevolezza ambientale rimase confinata ai soli Paesi dell’OCSE per gran parte dei trascorsi trent’anni. So che il primo Ministro per l’Ecologia nominato in Kazakistan, parlando al forum sull’energia alla fine del 1992, disse che i termini “ambiente” ed “ecologia” furono introdotti nella lingua russa solo nel 1988.

Ci sono ancora enormi vuoti nella nostra conoscenza a proposito di molte questioni chiave relativamente all’inquinamento. Ancor oggi si comprende a mala pena in quale misura l’inquinamento derivi dagli scarichi nei/dei fiumi, dal rilascio di inquinanti dovuto ai fertilizzanti e perfino dalle emissioni di metano determinato dai bovini.

L’anidride carbonica sembra essere la forma di inquinamento che crea le preoccupazioni maggiori nell’ambito scientifico per la sua capacità di trattenere il calore sulla superficie terrestre.

La crescita della popolazione, chiaramente, ingigantisce le emissioni di anidride carbonica, anche se il consumo individuale di quanto produce inquinamento dovesse ridursi.

Sfortunatamente accade il contrario. C’è una tremenda disuguaglianza nelle emissioni globali odierne. Un quinto della popolazione mondiale ha rilasciato oltre il 60% delle emissioni di anidride carbonica verificate, mentre il quinto più povero della popolazione del globo ne ha rilasciato meno del 2%. Questa minuscola emissione del 2% non è il risultato di sforzi per frenare l’inquinamento. E’ dovuta semplicemente alla estrema povertà, alla minuscola industrializzazione e all’altrettanto minuscolo impiego di energia da parte di una consistente fetta della popolazione globale, circa un trentennio dopo che “I limiti alla crescita” sollevò per la prima volta la questione dell’inquinamento.

L’area che attrae i maggiori livelli di preoccupazione per quanto riguarda l’inquinamento è l’impiego globale dell’energia. Un tema che riceve molte meno attenzioni è quello inerente la “miscela energetica” (il peso che ciascuna fonte di approvvigionamento energetico riveste nel contesto dell’approvvigionamento energetico complessivo) di ciascun Paese e i suoi possibili cambiamenti.

L’impatto della “miscela energetica” sull’inquinamento è il cuore dell’impatto inquinante di una popolazione in crescita che usi sempre più energia. Se il grosso della crescita del ciclo produzione/consumo di energia avviene impiegando la fonte di approvvigionamento sbagliata, per esempio il carbone, l’impatto probabile che si avrà sull’atmosfera (in assenza di notevoli scoperte tecniche che consentano la creazione di energia pulita dal carbone) è veramente terrificante.

Dal momento che il problema è così serio, vale la pena esaminare l’impatto sui livelli futuri di consumo energetico e l’impatto che quest’ultimo ha sull’inquinamento, a partire da diversi scenari sulla “miscela energetica” del mondo del futuro.

Se tali questioni venissero ignorate, si potrebbe finire per dare luogo a una vera e propria crisi per l’umanità, che improvvisamente si manifesterebbe come un classico caso di “sfondamento”.

Se si calcola una qualsiasi entità ragionevole di consumo energetico per il 2030, accantonando il presupposto privo di senso che la popolazione povera del mondo non migliori mai la propria condizione e non cresca più di numero, l’aumento del volume energetico che ne risulta è impressionante. Se anche il mondo fosse abbastanza fortunato da trovare un modo per produrre concretamente una tale enorme quantità di energia aggiuntiva, emergerebbe comunque un secondo problema. L’inquinamento generato per produrre questa energia aggiuntiva potrebbe diventare schiacciante o rivelarsi perfino una minaccia per la vita stessa.

Questo volume energetico aggiuntivo richiede una grande attenzione al tipo di “miscela energetica” al quale il mondo farà ricorso tra trenta o quarant’anni. Se il carbone mantiene la propria percentuale di impiego, in assenza di qualche miglioramento rivoluzionario nelle produzioni che produce, l’atmosfera del mondo sarà ovviamente molto diversa da quella di oggi. Ma ogni calo percentuale nell’impiego del carbone aggiunge un ulteriore carico sui barili di petrolio equivalente di energia alternativa che dovrebbe prenderne il posto.

Prendete il gas naturale come esempio principale, dal momento che attualmente è la forma di energia più pulita che possa costituire un realistico sostituto del carbone. Supponete che non ci sia una crescita nei consumi energetici e che l’impiego del carbone, che rappresenta oggi circa il 40% delle fonti energetiche mondiali, si riduca solo del 5% per essere sostituito dal gas. Questo piccolo cambiamento richiederebbe l’equivalente di quasi il doppio del gas naturale che consuma attualmente il Canada. Se l’impiego energetico totale del mondo crescesse da 40 a 100 milioni di barili di petrolio equivalente al giorno e l’impiego del carbone scendesse anche del 5-10%, le necessità aggiuntive di gas naturale implicate dal cambiamento impazzirebbero.

Mentre non sono mai stato convinto che il mondo si troverà a dover fronteggiare alcuna reale carenza energetica determinata dal rimanere senza qualche risorsa [intesa come qualcosa di opposto al consentire che le forniture finiscano al di sotto della domanda in termini giornalieri], pensare che il mondo potrebbe veramente trovare un modo per produrre da due a cinque volte più gas naturale in 30 o 40 anni porta a chiedersi se le riserve siano sufficienti perché ciò possa accadere. Dopo tutto, il gas naturale rimane una risorsa “non rinnovabile”. Ma un’estrapolazione di alcune semplici tendenze ci porta esattamente a tali enormi quantità aggiuntive.

Quando viene usato sempre più gas naturale per alimentare la crescita della popolazione e i Paesi poveri sono abbastanza fortunati da raggiungere miglioramenti significativi del PIL, e quando l’inquinamento impone una conversione dal carbone al gas naturale, ci deve essere il rischio di ritrovarsi improvvisamente ad usare così tanto gas naturale da esaurirne letteralmente le forniture mondiali. Non si tratta di un evento che è probabile che accada nel 2005 e neppure nel 2010, ma se si tratta anche solo lontanamente di un rischio, occorre impegnarsi fin d’ora per risolverlo.

Il quesito dello Stagno dei Gigli è tutt’ora attuale. Ci vogliono decenni di pianificazione per affrontare l’insufficienza di energia ambientalmente amichevole, come il gas naturale. Se aspettiamo fino al “ventinovesimo giorno”, quando basta ancora un solo giorno di crescita perché il giglio ricopra interamente lo stagno, sarà troppo tardi per tentare un nuovo percorso.

Trovare soluzioni per questo tipo di interrogativo energetico non è compito facile. Non esistono soluzioni magiche. Una soluzione semplice sarebbe bandire ogni ulteriore crescita dell’impiego di energia. Ma questo presupposto semplicistico lascia una parte troppo ampia del mondo bloccato nello stadio di “pigmeo energetico”. Come evidenziava “I limiti alla crescita” quasi trent’anni fa, «Uno dei migliori indicatori della ricchezza di una popolazione umana è la quantità di energia pro-capite consumata». Questa affermazione è ancor più vera nel 2000 di quanto non fosse nel 1972!

E’ semplicemente intollerabile e totalmente non realistico proibire la creazione di ricchezza per i 4,8 miliardi di persone meno fortunate degli altri 1,2-1,6 miliardi che si ingozzano di energia ad un livello da 10 a 30 volte superiore.

E’ anche semplicistico e perfino meno probabile che la gente ricca decida volontariamente di ridurre drasticamente il proprio uso di energia per “lasciar spazio” ai meno fortunati affinché migliorino le proprie condizioni di vita.

“I limiti alla crescita” dovrebbero aver indotto questi pensieri, portando queste domande impegnative in primo piano nelle discussioni correnti sull’energia. Si tratta di questioni concrete, con poche risposte realistiche.

A dispetto di tutti gli avanzamenti nella tecnologia e nella conoscenza avvenuti tra il 1972 e il 2000, non ci sono oggi soluzioni migliori di quelle già disponibili nel 1972 agli interrogativi posti in “I limiti alla crescita”.

Gli autori di “I limiti alla crescita”, nel 1972, indicarono nelle questioni legate all’inquinamento un possibile limite alla crescita del mondo. In quel tempo, c’era una grave carenza di conoscenze circa quali potrebbero essere i limiti massimi di inquinamento per la delicata struttura ecologica del pianeta. Nel 1972, la preoccupazione umana per gli effetti dell’inquinamento sull’ambiente naturale era ancora ad uno stadio alquanto embrionale. I tentativi scientifici di misurare l’impatto ambientale dei consumi umani erano agli inizi.

Trent’anni dopo, il dibattito ambientale si è fatto molto acceso. Milioni di alberi sono stati abbattuti semplicemente per produrre la carta sulla quale si è scritto dell’inquinamento! Ma non sono ancora chiare le “prove” scientifiche e solide circa il punto in cui i limiti iniziano a farsi sentire. Non si sono fatti molti progressi nel definire i limiti superiori all’inquinamento energetico, per non parlare di tutte le altre forme di inquinamento create dalla gente e dalle attività industriali in espansione. Forse, questo vuoto è un’altra ricaduta della mancanza di quelle “conclusioni”alle quali gli autori di “I limiti alla crescita” speravano così tanto che si sarebbe giunti.

La sola certezza nell’attuale dibattito sull’inquinamento sembra ricadere sull’improbabile presupposto che la crescita esponenziale possa continuare il suo percorso attuale ancora per alcuni anni prima di scontrarsi con alcuni limiti che non è possibile spostare. Non si sa se questi limiti verranno raggiunti nel 2030, se non prima, o se il mondo potrà raggiungere il 2070, anno del quale si è occupato “I limiti alla crescita”. A differenza del quesito dello Stagno dei Gigli, la scienza deve ancora definire l’equivalente della crescita virulenta del giglio d’acqua.

Da una punto di vista energetico, ci sono dei limiti concreti dovuti all’inquinamento che deriverebbe dal raddoppiare, triplicare o perfino quadruplicare l’attuale impiego di energia nelle forme odierne. Se la percentuale di impiego del carbone non si ridurrà, ci ritroveremo a dover fronteggiare degli scenari da vero giudizio universale.


La necessità di nuove alternative energetiche

L’intera materia porta a chiedersi: «Quale sarà la prossima forma di energia?». Se l’energia non rinnovabile rimane “non rinnovabile” e le emissioni inquinanti costituiscono un rischio concreto (particolarmente per quanto riguarda il carbone), allora il mondo deve cominciare a trovare alcune fonti realistiche di energia rinnovabile o alternativa. Non possiamo aspettare fino a quando le riserve di energia non rinnovabile saranno esaurite o troppo inquinanti per poter essere ulteriormente impiegate.

Nel 1972, gli autori di “I limiti alla crescita” indicavano tre ovvie energie alternative: il nucleare, l’eolico e il solare. A quel tempo, ognuna di esse prometteva un futuro di crescita energetica pulita.

L’energia nucleare è divenuta una realtà. Era una porzione irrilevante nel 1972 ma, nel 2000, è cresciuta fino all’8% dell’impiego totale globale di energia. E’ diventata la sola significativa nuova fonte energetica “originaria del XX secolo”. Ha offerto un modo ancor più pulito del gas naturale per produrre elettricità.

Purtroppo, l’era dell’energia nucleare sembra essere “venuta e andata” in un battere di ciglia. Meno di un decennio dopo l’introduzione dell’energia nucleare, si è verificato il disastro di Three Mile Island. Entro un anno, gli Stati Uniti videro il proprio ultimo progetto di un nuovo impianto nucleare. Altri Paesi continuano ad espandere il proprio ricorso al nucleare. Ma perfino la Francia, la Germania e il Giappone, i più avanzati utilizzatori di energia nucleare, non solo subiscono oggi forti pressioni per abbandonare ogni ulteriore espansione del suo impiego, ma stanno anche discutendo se il loro attuale installato nucleare debba essere mantenuto.

Negli Stati Uniti, non solo non si sono messe in cantiere nuove centrali nucleari in oltre vent’anni, ma si sta cominciando a smantellare quelle già operative. Sono passati decenni dal momento in cui si sono sviluppati progetti per una nuova generazione di impianti nucleari. Lasciata al suo progredire attuale, l’energia nucleare viene seppellita quasi prima di aver raggiunto l’adolescenza, nell’arco vitale dei tempi energetici.

L’ultima ironia riguardo al nucleare è che non si è trovata alcuna soluzione al problema più “imbarazzante” che questo si trovava di fronte nel 1972. Quando venne pubblicato “I limiti alla crescita”, lo smaltimento delle scorie nucleari era un enigma insoluto. Oggi, esso rimane un problema altrettanto serio. Gli scienzati stanno discutendo quanto potrebbero essere pericolose in realtà le scorie nucleari ma, fino ad ora, non esiste ancora alcun luogo sicuro ove seppellire permanentemente il combustibile nucleare esaurito.

Se l’energia nucleare non avrà un ruolo nella crescita del XXI secolo, deve crescere enormemente l’attenzione sugli altri tre cavalieri dell’energia rinnovabile: il vento, l’acqua ed il sole. Purtroppo, ognuno di essi ha il suo “tallone d’Achille”.

L’acqua, ovvero l’energia idroelettrica ottenuta costruendo dighe, è un modo pulito ed affidabile per generare elettricità. Però le dighe, nei luoghi più adatti per la loro costruzione, sono già state costruite nella maggior parte del mondo. Inoltre, anche l’energia idroelettrica porta con sé un costo ecologico devastante, a meno che l’acqua che si accumula dietro lo sbarramento copra solo terreni inutilizzabili.

Nell’attuale pianificazione energetica a lungo termine, sono comprese poche nuove dighe. Le poche che sono in costruzione, come la diga delle Tre Gole, in Cina, sono selvaggiamente avversate dagli ambientalisti. Un gruppo crescente di ambientalisti stanno mettendo in piedi un movimento per cominciare ad aprire brecce nelle dighe esistenti per favorire la deposizione delle uova da parte dei pesci nei prossimi 100 anni. Come il nucleare, anche questa forma di energia potrebbe cominciare a calare.

Se anche l’acqua, come il nucleare, non si aggiungerà alla “miscela energetica” del XXI secolo, rimangono il vento e il sole, in mancanza di nuove forme di energia in fase di studio come le celle combustibili a idrogeno e la fusione fredda.

Il vento e il sole sono da tempo fonti di energia, sebbene entrambe siano diventate un modo per produrre elettricità solo pochi decenni fa. A dispetto di un lungo periodo di ricerca, entrambe manifestano dei gravi limiti nel generare una produzione energetica su larga scala. Nessuna di esse è “distribuibile” [il termine usato nel testo originale è “dispatchable” - N.d.T.], un termine usato nel campo dell’elettricità per descrivere la possibilità di accendere un generatore quando l’energia è necessaria e inviare immediatamente l’energia richiesta all’utilizzatore. Entrambe sono estremamente costose se rapportate ad altre fonti. Nessuna di esse è stata in grado di espandersi ad un livello tale da generare quantità di energia significative.

Dal momento che il sole non splende sempre, e che il vento non soffia sempre, la loro disponibilità rimarrà irregolare fino a quando si darà vita ad una tecnologia in grado di immagazzinare grandi quantità di energia elettrica. Attualmente, la ricerca in questo campo non è neppure in corso. A dispetto di tutta la ricerca e lo sviluppo destinate all’energia eolica e solare, la produzione di entrambe rimane costosa come 20-30 anni fa. Alcuni critici sostengono anche che tanto gli impianti eolici quanto quelli solari impiegano più energia di quanta ne producano in un paio d’anni. Tanto l’eolico quanto il solare, poi, provocano una propria forma di inquinamento — paesaggistico e, nel caso del vento, acustico.

Nel 1999, tutte le forme di energia rinnovabile (ad esclusione di quella idrica) hanno generato solo lo 0,1% dell’elettricità dell’America. Il geotermico rappresenta quasi la metà di questa pur minima quantità. Il ricorso al legname, la più antica forma di energia, e la combustione dei rifiuti ha fornito quasi tutta la metà rimanente. Alla fine del XX secolo, il vento e il sole insieme hanno generato solo lo 0,1% dell’energia rinnovabile degli Stati Uniti. Il che significa, con un semplice calcolo aritmetico, che queste due “promettenti nuove tecnologie”, sbandierate come così promettenti quando fu pubblicato per la prima volta “I limiti alla crescita”, ancor oggi forniscono solo lo 0,001% dell’energia elettrica generata negli Stati Uniti! Dire che non è stato fatto alcun passo avanti in questo campo da quando “I limiti alla crescita” comparve sugli scaffali delle librerie, significa sminuire enormemente i fatti.

C’è sempre speranza che una forma di energia totalmente nuova divenga commerciabile ben prima che un qualsiasi limite cominci a ridurre la crescita mondiale. Tanto le celle combustibili a idrogeno quanto la fusione fredda promettono molto come nuove forme di energia significative. Ma nessuno è prossimo a provare che funzionino su nessuna scala o a un prezzo abbordabile.

L’energia delle celle combustibili a idrogeno è “alle porte” secondo alcuni di coloro che promuovono questa nuova tecnologia. Ma molte domande affliggono ancora questa “nuova tecnologia” che è stata in realtà inventata 161 anni fa ed è stata impiegata nello spazio oltre trent’anni fa.

Le domande riguardano la sicurezza, i costi e la semplice disponibilità del combustibile da impiegare. Il gas naturale è la materia prima principale che si presume di impiegare per generare l’idrogeno da usare per ottenere questa nuova forma di energia. Date le altre pressioni dovute al consumo crescente che il gas naturale si trova di fronte, dare per scontata la disponibilità di altro gas naturale potrebbe costituire una premessa cretina.

La fusione fredda potrebbe improvvisamente diventare una nuova fonte di energia. Ma si sa ancora poco a proposito anche solo di come è formata. Dal momento che ci sono voluti trent’anni per commercializzare l’atomo, dopo che è diventato un’arma realizzabile, sarebbe sciocco da parte dei pianificatori dell’energia dare per scontato che qualcosa come la fusione fredda possa essere sviluppata fino al punto di divenire qualcosa di significativo in un lasso di tempo considerevolmente più breve. Vale anche la pena notare che, anche dopo che il nucleare è diventato commerciabile, ci sono voluti altri vent’anni prima che crescesse fino a solo l’8% della “miscela energetica” totale del mondo.

Quando si tratta di generare nuova energia, l’unica certezza che abbiamo, dopo oltre un secolo da che la tecnologia energetica ha dato vita al motore a combustione interna e a un sistema di raffinazione capace di trasformare il petrolio in prodotti finiti, insieme a grandi passi nel rendere l’elettricità conveniente, è che solo un vero nuovo tipo di energia è stato commercializzato in cent’anni. E da allora il nucleare ha cominciato a morire ancor prima di raggiungere l’adolescenza.


Oggi dobbiamo prendere sul serio i limiti alla crescita energetica

La popolazione mondiale è ancora in crescita. Solo una guerra diffusa o una grave epidemia può invertire la rapida crescita che sta ancora avvenendo in così tante parti del mondo. Si spera che gli avanzamenti della tecnologia nella desalinizzazione dell’acqua, in agricoltura e in altri campi che si configurano come possibili limiti, consentiranno al mondo di crescere e nel frattempo di evitare il rischio di imbattersi in quei limiti che preoccupavano il Club di Roma una trentina d’anni fa. Ma i limiti energetici devono essere una vera preoccupazione, se il divario tra ricchi e poveri verrà alla fine ridotto. Negli ultimi trent’anni si è ampiamente ignorato l’interrogativo se il mondo può continuare il suo attuale percorso verso la crescita e evitare un grave tracollo energetico, una contrazione energetica o anche carenze energetiche croniche oltre il 2010, per non parlare del 2030. Se ci sia un modo per guidare il mondo verso la prosperità globale nel 2050 o nel 2070 è un tema che dovrebbe oggi impegnare tutte le migliori menti del mondo.

E’ chiaro che gli scettici e i detrattori di “I limiti alla crescita” del Club di Roma hanno colto in modo errato il messaggio del libro, almeno da un punto di vista energetico. Essi si sono rivelati altrettanto in torto a proposito di “I limiti alla crescita” quanto a proposito dell’intero quadro energetico sul finire del XX secolo. Questi rinomati economisti esperti in energia hanno finito per dedicare troppo tempo a criticare “I limiti alla crescita” e ad attribuirgli l’esposizione di dati da giorno del giudizio che non facevano neppure parte del libro. Essi hanno quindi dedicato di gran lunga troppo tempo a pontificare sul come l’energia stava diventando poco a poco meno importante per le meraviglie della New Economy e sul come sarebbe costata sempre meno col passare del tempo.

Invece di rimboccarsi le maniche tutti insieme per cominciare ad occuparsi di questioni energetiche serie, questi ficcanaso hanno speso il loro prezioso tempo attaccando le poche voci che si occupavano di energia in modo sano. Nel corso degli anni, la scorretta svalutazione di questo importante lavoro da parte degli economisti del campo energetico non è stata solo il frutto di un errore, ma a volte i loro attacchi si sono anche rivelati in qualche misura meschini e perfino petulanti! Che fine triste, per un lavoro così benintenzionato.

Alle spalle di questo sciocco e disinformato canto delle cicale, incombeva una quantità di statistiche, tutte di pubblico dominio, che provavano come molti degli argomenti chiave sollevati in “I limiti alla crescita” non solo erano gravi, ma avevano un’ampiezza sempre crescente con l’ampliarsi del divario tra ricchi e poveri e con l’espandersi della popolazione povera ad una velocità molto più rapida di quella ricca.

Forse, la ciliegina sulla torta tra gli errori commessi da troppi curatori dei piani energetici sul finire del XX secolo, è che il lavoro che hanno così malignamente accusato si è rivelato dalla parte della ragione.

Non c’è ovviamente alcuna certezza che il mondo rimarrà realmente privo di alcuna preziosa risorsa entro il 2030. Non c’è nessuna finalità “magica” nel riferirsi al 2030 come al “giorno del giudizio”. La sola ragione per la quale ho centrato sul 2030 così tante estrapolazioni riferite all’energia è che quell’anno raddoppia il lasso di tempo già trascorso da quando “I limiti alla crescita” è stato pubblicato per la prima volta. Se estendeste il lasso di tempo considerato fino al 2050 o anche fino al 2070 [le date che i modelli del MIT rivelarono troppo allarmanti], e se una qualsiasi delle attuali tendenze demografiche, di sviluppo industriale o di impiego di energia dovesse mantenersi invariata, i numeri che ne risulterebbero sarebbero quasi troppo soverchianti per essere anche solo compresi. I meccanismi di interazione descritti dal Modello di Dinamica Sistemica del MIT dei primi anni ‘70 è ancora attuale e valido. Prima che una qualsiasi fonte di energia si esaurisca, o che l’inquinamento implicito in un così grande consumo energetico aggiunto avveleni il pianeta, qualche evento naturale interromperà senza dubbio il progresso economico che induce a divorare una fonte energetica preziosa e in declino.

Per esempio, consideriamo un Paese come la Nigeria. Se la Nigeria divenisse improvvisamente un importatore di petrolio, la sua economia subirebbe uno scossone tale da interrompere la crescita della sua prosperità, invertendone il consumo energetico interno. Il feedback negativo funziona. Ma questo tipo di improvvisi arresti ad ogni ulteriore crescita sono esattamente ciò che “I limiti alla crescita” incoraggiava il mondo a trovare il modo di evitare.

Esaminate con attenzione la demografia dell’intero Medio Oriente e valutate come qualunque Paese di quell’area potrebbe contare di essere ancora esportatore di energia nel 2030, per non parlare del 2050 o del 2070. Se questi Paesi alla fine usassero così tanta energia da non poterne più esportare, potrebbe trattarsi dell’evento finale del quale ci avvisava “I limiti alla crescita”?

“I limiti alla crescita” non ha mai inteso essere un libro catastrofista. Piuttosto, si sperava che avrebbe avviato nelle tendenze umane un cambiamento tale da evitare la catastrofe. Ma i finanziatori del progetto furono molto chiari sul fatto che era un inizio semplicemente maldestro il lasciare che la ricchezza del mondo rimanesse distribuita in modo così disomogeneo. Essi furono altrettanto chiari nel sostenere che «in mancanza di uno sforzo mondiale, il divario e le disuguaglianze odierni [del 1972], già esplosivi, continueranno a crescere. E il risultato di questa tendenza non può essere che un disastro».

Furono anche molto chiari nel sostenere che quanto più ci si fosse avvicinati ai limiti fisici del pianeta, tanto più difficile sarebbe stato difficile affrontare i problemi. (E’ il vecchio quesito dello Stagno dei Gigli che torna a trovarci ancora una volta.)

Le persone dal forte senso civico che finanziarono il lavoro di modellazione e gli autori che scrissero poi il libro erano anche convinte che le questioni sollevate da “I limiti alla crescita” dovevano essere affrontati dalla “nostra” generazione. I problemi erano troppo gravi e il tempo di correzione troppo lungo per poter lasciare che se ne occupasse una qualche “prossima generazione”.

Il libro si chiude con una nota dolorosa: «La nostra posizione è di grande preoccupazione, ma non di disperazione… Può essere alla nostra portata il fornire a una popolazione ragionevolmente numerosa una buona vita materiale oltre a opportunità di illimitato sviluppo individuale e sociale”.

C’è da sperare che questo ottimismo possa ancora essere garantito, sebbene la sfida sia già stata passata a una nuova generazione e non si sia ancora fatto alcun passo avanti.

Secondo me, sarebbe ingenuo presupporre che il divario tra ricchi e poveri possa rimanere come è oggi, e ancora più ingenuo presupporre che possa crescere senza dare luogo alla fine a grande confusione sociale. Se il divario divenisse troppo grande, alla fine i poveri «attaccherebbero i muri della prosperità» nel tentativo di ridistribuire la ricchezza. La storia ha più volte evidenziato che le cose stanno così. La maggior parte delle guerre peggiori non erano battaglie ideologiche ma vere e proprie lotte per la ridistribuzione della ricchezza.

Ma ridurre il divario tra ricchi e poveri richiede molta attenzione, poiché i cambiamenti esponenziali tanto nell’impiego delle risorse energetiche quanto nei valori incerti di una quantità di altri fattori, compreso l’inquinamento implicito nella crescita, porteranno al limite la capacità logistica del mondo e la disponibilità delle risorse.

La prima fase della condizione del genere umano non è mai realmente passata alla seconda. Invece, piuttosto che semplicemente ignorare “I limiti alla crescita” e dimenticare le sue raggelanti conclusioni qualora i problemi sollevati venissero trascurati, troppi “esperti” hanno deciso di usarlo come un facile bersaglio di derisione intellettuale.

Come persona che ha studiato seriamente l’energia negli ultimi trent’anni, e che crede fermamente che calcolare le tendenze storiche è spesso un modo di preventivare il futuro molto più affidabile di qualsiasi altro metodo, credo che il mondo semplicemente non possa continuare ad accrescere la popolazione nelle aree povere del mondo e nello stesso tempo far aumentare la ricchezza di queste popolazioni povere. L’impiego di energia sottinteso a simili dimensioni della popolazione non si accorda con alcun piano sicuro, anche solo per fornire l’energia minima che questo scenario porta con sé.

C’è tempo per iniziare il coscienzioso lavoro che il Club di Roma sperava che si sarebbe intrapreso dopo il 1972? Spero di sì. Ma trascurare per altri dieci anni questioni così importanti, farebbe sì che probabilmente qualsiasi soluzione venisse tentata, arriverebbe troppo tardi per poter essere efficace. A posteriori, è emerso che il Club di Roma aveva ragione. Abbiamo semplicemente sprecato trenta importantissimi anni, ignorandone il lavoro.


APPENDICE 1

Impiego globale attuale dell’energia

 

Petrolio equivalente
al giorno
(in milioni di barili)

 

Tipologie di
approvvigionamento energetico
(in milioni di barili di
petrolio equivalente)

OCSE

105

Petrolio

72

Ex-Unione Sovietica

19

Carbone

44

Paesi in via di sviluppo

54

Gas naturale

43

 

 

Nucleare

14

 

 

Idroelettrico

5

Totale

178

Totale

178

Fonte: Statistiche sull’energia della BP
Simmons & Company International


APPENDICE 2

Consumi energetici globali totali

In milioni di tonnellate di petrolio equivalente

 

 

1940

1950

1960

1970

1980

1990

2000*

U.S.

600

825

1100

1665

1850

1930

2250

Europa occidentale

400

450

700

1120

1280

1740

1810

“Unione Sovietica”

125

160

482

820

1170

1400

920

Resto del mondo

300

400

925

1745

2600

2785

3590

Totale

1425

1835

3200

5350

6900

7855

8570

 

Milioni di barili di
petrolio equivalente al giorno

29700

38200

66600

111400

146700

163600

178500

*valore stimato
Simmons & Company Intenational


APPENDICE 3

Medio Oriente: il dormiente dei consmi energetici

 

1970

1980

1990

2000

2030 (stime)

Popolazione in milioni

60

91

132

168

344

Consumi energetici
(in milioni di tonnellate di petrolio equivalente)

66

117

212

388

1652

Milioni di BOE* al giorno

1376

2438

4406

8079

34390

BOE* pro-capite all’anno

8,4

9,8

12,2

17,5

36,5 (E*)

*BOE: barili di petrolio equivalente
*E: Estrapola al 2030 la crescita annuale pro-capite del 2,5% annuo nel periodo 1970-2000
Fonte: U.S. Bureau of Census (per i dati sulla popolazione) e BP Amoco (per i dati sul consumo energetico)
Simmons & Company International


APPENDICE 4

Alcuni Paesi OCSE

 

19701

1980

1990

20002

Stati Uniti d’America

Popolazione

205

228

250

276

Consumi energetici

1527

1851

1931

2249

Domanda energetica pro-capite

56,6

61,7

58,7

61,9

Regno Unito

Popolazione

55,6

56,3

57,6

59,5

Consumi energetici

186,0

203,8

212,6

226,9

Domanda energetica pro-capite

25,4

27,5

28,1

29,0

Spagna

Popolazione

33,6

37,5

39,4

40,0

Consumi energetici

45,5

76,5

89,0

121,5

Domanda energetica pro-capite

10,3

15,5

17,2

23,1

1 - Considera 1970-1975 = 5% annuale 1864
2 - Considera 2000 = 102% del 1999
Simmons & Company International


APPENDICE 5

Popolazione del Medio Oriente

 

1970

1980

1990

2000

Iran

28,9

39,3

55,7

65,6

Iraq

9,4

12,3

18,1

22,7

Arabia Saudita

6,1

9,9

15,8

22,0

Yemen

6,3

8,6

12,0

17,5

Siria

6,2

8,8

12,0

17,5

Giordania

1,5

2,2

3,2

5,0

Oman

0,8

1,1

1,8

2,5

Emirati Arabi Uniti

0,3

1,0

1,9

2,4

Kuwait

0,7

1,4

2,0

2,0

Qatar

0,1

0,2

0,5

0,7

Israele

2,9

3,6

4,5

5,8

Libano

2,3

3,1

3,2

3,6

West Bank

0,7

0,9

1,3

2,0

Totale

60,0

91,3

132,4

168,1

Simmons & Company International


APPENDICE 6

Le forniture energetiche del Medio Oriente

In milioni di barili di petrolio equivalente al giorno

 

1970

1980

1990

2000

2030 (stime)

Consumi

Petrolio

935

1625

3390

4554

26400

Gas naturale

367

710

1770

3351

10000

Carbone

-

-

48

119

-

Idroelettrico

17

21

21

21

-

Totale

1319

2356

5229

8045

36400

 
Esportazioni

Petrolio

15200

11600

14200

18700

25000

Fonte: BP Amoco Energy Statistics (per i dati storici)
Simmons & Company International


APPENDICE 7

Barili di petrolio equivalente
(in milioni al giorno)

 

1989

1999

Domanda energetica totale

162,0

177,7

OCSE

92,0

105,4

Ex Unione Sovietica

28,6

18,9

Resto del mondo

41,4

56,4

Totale

1319

2356

 

Miscela energetica

 

1989

1999

Petrolio

64,3

72,1

Gas naturale

36,2

43,0

Carbone

47,3

44,3

Nucleare

10,5

13,6

Idrocarburi

3,8

4,7

Totale

100,0

100,0

 

Miscela energetica
(Ex Unione Sovietica)

 

1989

1999

Petrolio

55,7%

68,3%

Gas naturale

24,3%

32,9%

Carbone

40,8%

70,8%

Nucleare

9,3%

12,5%

Idrocarburi

3,4%

4,3%

Totale

100,0%

100,0%

Simmons & Company International


Note

[1] Il libro bianco China’s Insatiable Energy Needs, pubblicato da Matthew R. Simmons nell’agosto 1997