Le grandi crisi ambientali globali: 

un sistema in agonia,    

il rischio di guerra.

Alberto Di Fazio

Osservatoro Astronomico di Roma  e  Global Dynamics Institute

 

 

Documento presentato al Congresso Comitato Scienziate e Scienziati Contro la guerra 2000

 Politecnico di Torino

On-line a www.aspoitalia.net

 

 

 

1.  Introduzione

            L’incombenza della crisi energetica, della crisi climatica, della crisi idrica, agricola, della deforestazione, della desertificazione e di altre gravi crisi ambientali globali – tutte attive su scale temporali di 10-20 anni – rende assolutamente necessario il tenerne conto, nell’analizzare le guerre recenti, attuali e future. È altrettanto necessario  valutare il grado di dipendenza dei conflitti presenti e futuri da tali crisi e dagli schieramenti e dalle politiche messi in atto dai vari paesi nel tentativo di sopravvivere ad esse.

            Nell’imminenza del summit mondiale sul clima all’Aja (prossimo novembre) e in presenza del primo impatto delle potenzialità di produzione dei pozzi petroliferi sul mercato dell’energia, voglio qui riassumere – ed aggiornare – le diverse crisi in atto ed imminenti, con i loro impatti economici e ambientali e con le loro conseguenze militari.

            Ciò che mi preme – tra le cose più importanti – di evidenziare è l’assoluta irresolvibilità di tali crisi con misure di puri shift tecnologici e cioè rimanendo nel business-as-usual[1] (BAU) politico-economico, e la corrispondente inassorbibilità di tali crisi nell’attuale sistema economico-politico di mercato. Questo – come risulterà più che evidente – insieme al dominio delle risorse energetiche ed agricole - è uno dei maggiori motivi di tensione bellica indotta dalle crisi suddette, e non solo tra nord e sud del mondo. Al tempo stesso, questa è una opportunità storica (pur nel drammatico pericolo generale per la sopravvivenza) per tutte le forze antagoniste al presente dominio assoluto del mercato e del pensiero unico neo-liberista, in quanto le crisi che andiamo a descrivere sono tutte intrinseche ed inscindibili dai meccanismi stessi di funzionamento del mercato (o del capitalismo, per usare un termine più preciso, andato - chissà perchè – quasi in disuso). Non è detto che tale opportunità venga colta in tempo e abbastanza diffusamente, e il nostro contributo deve essere anche quello di presentare ed analizzare scientificamente i fatti, i fenomeni, e le proiezioni in modo esaustivo, chiaro e scevro da ogni timore di dire “troppo”. Al tempo stesso è necessario accompagnare questa analisi con la descrizione altrettanto scientifica e chiara delle “soluzioni”, o dei modi – quando esistono – per mitigare le diverse crisi.

            Particolare attenzione dedicherò alla crisi energetico-petrolifera, che proprio questi giorni mostra una delle sue prime recrudescenze, e al paragone con le previsioni, i dati e gli studi su di essa presenti nella letteratura ormai da più di trenta anni. Analogamente sarà trattato il grado di dipendenza delle attività di base della società umana dall’energia da combustibili fossili – specialmente in agricoltura – e la sempre più stretta interazione con la crisi climatica.  i pericoli di conflitti – regionali e globali – saranno altresì esaminati soprattutto in relazione alla disputa delle risorse energetiche, alla contesa dei mezzi e del territorio per produrre alimenti e alla lotta per il dominio delle risorse idriche.

2. La crisi energetica

            La attuale e “improvvisa” recrudescenza della crisi petrolifera ha sorpreso molti, purtroppo. Ed è un vero peccato, perchè questa circostanza non è niente altro che un indicatore dello scarsissimo grado – se non nullo – di cognizione pubblica dei reali motivi di questa crisi. Negli innumerevoli articoli ed analisi – più o meno economiche – che si leggono sui giornali sono presenti le più svariate e improbabili cause ed interpretazioni, tutte improntate alla più spontanea fantasia, o peggio motivate da contingenti motivazioni nazionalistico-politiche. Abbiamo letto delle speculazioni di questo o quel mercato, delle tensioni monetarie, della ripresa economica mondiale che avrebbe incrementato i consumi e quindi fatto alzare i prezzi (wow! Un aumento di meno del 6% della domanda avrebbe prodotto, secondo costoro, un aumento di prezzo del greggio di un fattore ~ 4.7 = 37.8 $ al barile!!). Abbiamo infine letto (lo attendevamo) che in realtà la colpa è del solito Saddam, che ha di nuovo minacciato il povero Kuwait. A parte che quest’ultima motivazione non è descrivibile altro che come penosa (in quanto il rincaro aveva già portato il greggio sopra i 35 $ al barile prima delle accuse irakene a Kuwait) anche le altre sono – dal punto di vista quantitativo – del tutto peregrine.  Certo: lorsignori, dopo aver sbraitato da ormai più di trenta anni– con tutta la potenza dei media che ormai con il pensiero unico sono tutti ben controllati – che non c’era assolutamente alcun problema di scarseggiamento di risorse energetiche, affermando che ben più di cento anni (a partire da adesso) di utilizzo delle risorse non riusciranno neppure ad intaccarle apprezzabilmente, non possono adesso ammettere candidamente che il picco (geologico) del tasso di estrazione del petrolio e del gas naturale si trova dietro l’angolo, a dieci anni circa da adesso, o forse ancora meno!   Lasciamo perdere che lo stesso demonio-Saddam il 19 settembre aveva dichiarato che il panico in Occidente è determinato dal diffondersi della cognizione che il massimo delle possibilità estrattive sta per essere raggiunto.  Vediamo di cercare fonti via via più vicine ai sacri templi del Mercato Occidentale, che è poi il Text Box:  
Figura 1  Picco del tasso di estrazione aspettato per petrolio e gas naturale, in miliardi di barili equivalenti di petrolio.  Fonte: Petroconsultants di Ginevra; Forbes 15-06-98.
vero centro del potere politico “delocalizzato” nel corporate-business occidentale.  Dunque, non basterà certo leggere che il ministro dell’energia del Venezuela, dirigente OPEC, e il ministro nigeriano Rilwanu Lukman, segretario generale dell’OPEC, hanno ripetutamente dichiarato che i paesi produttori non-OPEC sono ormai arrivati alla massima capacità di produzione (producono il 60% della produzione totale mondiale, mentre posseggono il 20% delle riserve mondiali) e che i giacimenti mondiali nel loro insieme sono vicini a raggiungere la massima produzione.  No: cerchiamo un pò più lontano da queste fonti, che comunque sono di paesi del Sud del mondo…  Bene: che ne dite allora dell’intervista all’allora capo esecutivo dell’ENI apparsa sul numero del 15 giugno 1998 (p.84) della rivista di economia ed alta finanza Forbes? Bernabè dichiarava con precisione che il tasso di estrazione totale mondiale del petrolio piccherà intorno al 2005, mostrando che quello del gas naturale piccherà altresì intorno al 2010 (vedi figura 1).                            

Text Box:  
Figura 2 Il punto di cross-over nella produzione di petrolio OPEC rispetto a quella del resto del mondo, previsto intorno al 2007. Da Duncan & Youngquist.  
Motivo di tale brutale riduzione dei tempi aspettati? Semplice: la stima delle riserve è stata gonfiata – per motivi di mercato – sia dai paesi OPEC che dai paesi dell’ex Unione Sovietica. Come possiamo vedere sul sito della rivista Forbes[2], alla domanda specifica se tali previsioni significassero che i prezzi del petrolio avrebbero cominciato a salire ben oltre l’inizio del millennio, Bernabè rispondeva: “non necessariamente. Nonappena i mercati avvertiranno che la produzione si avvicina al picco i prezzi potranno salire in anticipo rispetto all’effettivo calo di produzione”, aggiungendo che per esempio i pozzi norvegesi stanno mantenendo la produzione solo grazie all’iniezione [con dispendio di energia, NdA] di gas nei loro pozzi.  Aggiungeva che il rapporto riserve/produzione è in calo da più di venti anni, e che – negli Stati Uniti – nonostante l’industria spenda oggi 15% in più di cinque anni fa nella prospezione, le riserve non vedono alcun aumento. Le nuove scoperte di campi petroliferi hanno raggiunto il loro picco nel 1960, aggiunge l’implacabile Bernabè, per poi mantenersi in costante calo fino ad oggi. Infine, a proposito di connessioni coi rischi bellici, su cui torneremo in seguito, Bernabè conclude la sua intervista affermando  che la crisi energetica in arrivo, con il predominio in arrivo da parte dell’OPEC dei tassi di estrazione sui paesi non-OPEC, “sposterà il potere del mercato del petrolio di nuovo nella regione del Golfo” (v. figura 2[3]), aggiungendo “il Medio Oriente diventerà una vera polveriera di guerra”.    Bernabè e stato  prontamente “promosso” (e quindi rimosso dall’ENI) lo stesso inizio autunno del 1998, per approdare nella più innocua Telecom.   Penso che – visti i tempi che corrono e gli argomenti quantitativi che riportavo lo scorso anno sul libro “Imbrogli di Guerra” – valga la pena di esaminare più a fondo questa questione dell’imminente picco del tasso di estrazione del petrolio. Inutile dire che la stampa italiana ha del tutto ignorato tale notizia, inclusa la stampa di sinistra.  Prima ancora, nel marzo dello stesso anno, la rivista Scientific American (e la versione italiana Le Scienze nel suo numero di maggio) riportava una serie di articoli,  il più importante di Colin Campbell e Jean Laherrere, “The end of cheap oil” in cui si mostravano dati, grafici ed analisi delle stime delle riserve falsificate dai paesi OPEC ed ex-URSS, e in cui si dimostrava che “la produzione globale del petrolio comincerà a declinare prima di quanto molti pensino, probabilmente entro 10 anni” (vedi l’articolo summenzionato nel sito su energia e crisi globali di J. Hanson[4]). A livello di riviste scientifiche autorevoli, Nature aveva pubblicato già l’anno prima, sul numero dell’8 maggio 1997, vol. 387, pag. 121, (“Oil Back on the Global Agenda”) una dettagliata analisi geofisica di Craig Hatfield, in cui si concludeva che, anno più, anno meno, tenendo conto delle riserve reali e del tasso di consumo e di scoperta, si sarebbe raggiunto il picco nella prima decade del 2000.  Va inoltre visitato il sito della Petroconsultants di Ginevra (una società di prospezione ed analisi geofisico/economica usata per consulenza tecnica da tutte le maggiori multinazionali petrolifere, nonchè da tutti i governi), al settore “industry watch”, all’URL della Petroconsultants[5] dove nel 1998 si mostra un rapporto tecnico sull’allargarsi del gap tra il tasso di produzione e di scoperta, mostrando che il rapporto di rimpiazzamento (scoperta/produzione) è ormai  caduto al di sotto del 30%.                    

 Infine, tanto per dissipare del tutto nel lettore – se mai ci fosse stato bisogno – il dubbio che queste notizie “catastrofiche” siano messe in giro chissà da chi, suggerisco di dare un’occhiata al rapporto dell’IEA (International Energy Agency) – ente tecnico-scientifico consultivo dell’OCSE – al G8 di Mosca, marzo 1998 (vedere sul sito dell’IEA[6]). L’IEA mostra chiaramente un picco intorno al 2010 (vedi tabella 1 e figure 4 e 5).

 

 

Tabella 1.

Milioni di barili al giorno

1996

2000

2010

2020

Consumo totale di combustibili liquidi

72.0

78.3

94.5

110.1

Totale in liquidi gas naturale, incrementi di lavorazione

e petrolio non-convenzionale identificato

9.3

11.6

15.5

20.6

Petrolio grezzo convenzionale

OPEC mediorientale

17.2

20.1

40.9

45.2

Mondo escludendo OPEC mediorientale

45.5

46.6

38.0

27.0

Totale petrolio grezzo

62.7

66.7

78.9

72.2

Fornitura mondiale liquidi escludendo il petrolio non-convenzionale non identificato

72.0

78.3

94.5

92.8

Differenza netta – petrolio non-convenzionale non identificato

0.0

0.0

0.0

17.3

 

Per finire con i dati rilevanti, è stato recentemente pubblicato un articolo con l’inedita lista delle curve di produzione del petrolio per tutti i 42 paesi produttori[7], con i massimi raggiunti o previsti per ognuno dei paesi. Il paper è di Richard Duncan e Walter Youngquist della University of California, Los Angeles, dove sono mostrati tutti i dati[8], regione per regione, i grafici e i metodi di calcolo delle curve di produzione. Essenzialmente, il picco del tasso di estrazione si ottiene quando, a causa della crescente difficoltà incontrata nel progressivo pompaggio e della struttura geometrica complessa dei pozzi, e in conseguenza della sempre maggiore energia impiegata per estrarre il greggio, ad un certo punto il gettito comincia a diminuire, per poi discendere progressivamente a zero. Infatti, proseguendo l’estrazione ad un costo energetico sempre crescente, arriva prima o poi il momento in cui per estrarre un barile di petrolio bisogna impiegare una quantità di energia maggiore o uguale a quella contenuta nel barile stesso. A quel punto l’estrazione viene arrestata, in quanto senza ormai più senso energetico e quindi economico. Ovviamente, dato che il gettito  (dal momento della messa in opera del pozzo in poi) cresce, ma poi ad un certo punto Text Box:  
Figura 3    La curva di Hubbert per un singolo pozzo. La curva rappresentante l’energia estratta netta, sovraimposta, mostra il punto in cui si arrestano le estrazioni (oltre quel punto l’energia netta diventa negativa).
dovrà arrivare di nuovo a zero, per ovvia proprietà delle variabili continue dovrà raggiungere un massimo. Tale ovvietà non sembra essere sempre riconosciuta dagli economisti… Con buona pace di Nordhaus e Samuelson (che si ostinano ad ignorare la fisica e ad applicare solo considerazioni economiche) quando l’energia netta[9] estratta è uguale o minore di  zero (v. fig. 3) un barile non verrebbe estratto neanche se si vendesse a un milione di dollari, perchè l’energia per estrarlo costerebbe almeno altrettanto. Il fatto è che il denaro altro non è che un convenzionale mezzo di scambio, mentre ciò che ha valore fisico è – alla fine di ogni Text Box:  
Figura 3a   La curva di Hubbert che  approssima la somma delle curve di produzione dei vari pozzi di una regione petrolifera. La produzione comincia da zero all’avvio del primo pozzo e torna a zero quando l’ultimo pozzo raggiunge la condizione di energia netta unguale a zero. Il massimo della produzione si ottiene quando la metà circa del petrolio inizialmente giacente è stato estratto.

processo reale – l’energia, ovviamente netta da ogni dispendio energetico di estrazione e trasporto[10]. Come scoperto dal geofisico King Hubbert[11], la condizione di massimo del tasso di estrazione del greggio si verifica quando la giacenza del petrolio è intorno al 50% dell’estimated ultimate recovery[12], con variazioni intorno al 5-6% dovute alla conformazione del pozzo e alla viscosità e densità del greggio. È importante sottolineare che, al momento dell’arresto del pompaggio dovuto alla raggiunta condizione di energia netta negativa, il petrolio residuo nel pozzo è tutt’altro che esaurito: a seconda della conformazione dei pozzi, giacenze residue dal 20% al 40% sono possibili, dalle statistiche riguardanti i pozzi che hanno ormai smesso di produrre. Stiamo parlando quindi di petrolio non recuperabile. È chiaro che la sorte del greggio dei pozzi al livello mondiale – non essendo altro che l’integrale del greggio di tutti i pozzi regionali – non può che seguirne la sorte. Dunque, dato che la legge di Hubbert ha perfettamente descritto (e previsto) il raggiungimento del picco del petrolio USA[13], di quello del mare del Nord[14], e di diverse decine di altri paesi, è ovviamente da attendersi lo stesso per la regione mediorientale, e in generale per la somma di tutti i pozzi, a livello mondiale (v. figura 3a).

È per lo meno inquietante che i governi G8 (ma ovviamente anche tutti gli altri dell’Unione Europea) abbiano deciso di tacere al pubblico dati così gravi e precisi (errori dell’ordine dei 3-7 anni) circa l’immediato futuro del supply di energia. Ancora più grave è la disinformazione regnante nella sinistra e in diverse organizzazioni ambientaliste. Nel caso della stampa italiana, dove nulla è trasparso (al contrario delle testate più note della stampa anglosassone: FT, NYT, WP[15], etc) stendiamo un pietoso velo, a questo punto anche sul livello professionale.  Anche i rapporti successivi a quello dell’IEA al G8  non sono stati pubblicati. Una cortina del silenzio è calata su questo argomento, anche se esso era già noto per lo più soltanto in ambiente scientifico-geofisico.   Fino a quando? Non sappiamo, ma è sotto gli occhi di tutti che meno di un anno fa i prezzi del barile di petrolio hanno iniziato a crescere vistosamente.  È importante tenere conto anche del fatto che le scorte USA sono calate del 7.1% rispetto allo scorso anno. Non solo, ma subito dopo che Clinton ha annunciato di fare ricorso alle riserve strategiche degli Stati Uniti (quelle che si sarebbero dovute usare in grave emergenza o in tempo di guerra) la Petroconsultants ha diffuso la stima che tali riserve – al tasso di consumo attuale e quindi con crescita economica nulla, cioè senza tenere conto dell’aumento dei consumi – durerebbero al più un anno o due.  

Text Box:  
Figura 4  La produzione di petrolio a livello mondiale, con in evidenza il picco dei paesi OPEC mediorientali intorno al 2013 e quello del resto dei paesi produttori intorno al 2000. Dal rapporto IEA al G8 di Mosca, marzo 1998 (v. sito IEA cit.)
            Ma non ci avevano detto, strillato e assicurato che il rapporto dell’MIT al Club di Roma aveva sbagliato le previsioni in quanto – si sosteneva – prevedeva un consumo di risorse esagerato? Anzi, se ricordate il mio articolo su “Imbrogli di guerra”, i governi occidentali montarono una campagna di mistificazione, sostenendo che le crisi globali previste dal General Dynamics Group dell’MIT intorno al 2010-2030 erano dovute all’esaurimento delle risorse (mentre in realtà esse erano dovute alla crescita economica esponenziale, accompagnata dalla crescita demografica previste dal modello, vedi figura 5).    Era una campagna basata su argomenti del tutto e smaccatamente falsi. Infatti, per l’anno 2000, i calcoli – eseguiti nel 1971 – prevedevano che le risorse fossero – nei vari modelli – comprese tra il 90% e il 75% del valore iniziale pre-industriale[16], valori quindi tutt’altro che indice di scarsità di risorse.  Semmai, oggi si potrebbe notare che quel modello – accusato di catastrofismo – peccava al contrario di eccessivo ottimismo, nelle ipotesi sui tassi di consumo conseguenti alla crescita economica da loro calcolata. I dati di tale crescita da loro calcolati, infatti,  paragonati al reale valore odierno, risultano precisi entro errori di appena 1.8%. Infatti, le previsioni del MIT per la crescita delle emissioni di CO2 erano anch’esse quasi esatte: errore inferiore all’1%, così come quelle per la popolazione e per il prodotto agricolo.  Paradossalmente, erano sbagliate proprio le previsioni sulle risorse, ma non per difetto, come le task force economiche dei maggiori governi occidentali strombazzavano allora e come ahimè qualcuno crede ancora oggi, ma per eccesso! Sappiamo infatti che oggi le risorse energetiche sono intorno al 55% del valore pre-industriale (non al 75-90%).  Quindi, semmai, le crisi globali previste dal MIT dovrebbero essere riviste in peggio (maggior intensità e/o maggior velocità evolutiva) in quanto sarebbero rafforzate – alla luce dei dati di oggi – dal considerevole maggior consumo di risorse energetiche verificatosi. Torneremo su questo più avanti, quando faremo il punto sulla crisi climatica. Infatti,  il lavoro del MIT non poteva conoscere l’esistenza dell’ulteriore limite calcolato dall’IPCC nel 1990 e ribadito dai calcoli –

 

 

Text Box:  
Figura 5  Il modello standard del gruppo di Meadows (Beyond the Limits, 1992) con la crisi sistemica prevista nel 2020 circa, e con la sovrapposizione della curva relativa al tasso di produzione del petrolio storico e previsto, pubblicato da Duncan e Youngquist nel 1998, op. cit.. Il modello standard originale, pubblicato nel 1972 su “Limiti dello Sviluppo” era sostanzialmente identico, in quanto i conti del 1991 lo riconfermavano con piccole variazioni negli output agricoli.


approvati all’unanimità – nel 1995: le emissioni di CO2 – per evitare una crisi climatica distruttiva e fuori da ogni controllo – non possono essere maggiori di circa il 20% del loro valore nel 1990[17]). Ovviamente, ciò impone un altrettanto stringente limite sul prodotto industriale lordo mondiale, cosa che peggiora notevolmente le condizioni di sostenibilità suggerite dal lavoro del MIT.  Altro motivo per cui le crisi previste dall’MIT erano in realtà basate su ipotesi troppo ottimistiche, alla luce di quanto sappiamo oggi, e quindi i collassi di sistema sarebbero ricalcolati oggi peggiori e più profondi di quanto calcolava l’MIT, altro che “gloom and doom models[18]”, come andava cianciando il prof. Nordhaus fino a 10 anni fa! Bisogna comunque ricordare che – nonostante l’eccellente qualità scientifica dei moduli integrativi del programma World3, progettato, costruito ed usato per i calcoli sulle crisi sistemiche globali – lo scopo e il messaggio del celebre rapporto del MIT al Club di Roma, così come del più recente lavoro della stessa squadra scientifica[19], era ed è non quello di una previsione dettagliata, ma di far capire che la crecita economica non è compatibile col sistema finito – la Terra – in cui viviamo, e tantomeno una crescita esponenziale, come quella che continua ormai da più di un secolo. In particolare, l’introduzione nei modelli di varianti super-ottimistiche, come l’introduzione nel sistema della fusione controllata, di tecnologie per il controllo dell’erosione dei territori arabili, di tecnologie per l’abbattimento dell’inquinamento, etc, oppure l’introduzione di condizioni iniziali doppie o quadruple per le risorse naturali rispetto ai valori realmente stimati, tutto ciò non elimina le crisi globali distruttive, previste – a seconda delle varianti numeriche adottate – nel range [2010, 2030].  Nonostante dunque l’approssimazione del calcolo e la non-pretesa di fornire una previsione precisa, il modello standard (v. figura 5) prevede il livello critico di risorse circa al 50% del valore preindustriale nel 2020 circa, che confrontato con le stime attuali – dai dati dei pozzi in tutto il mondo - per l’analogo punto critico relativo alle risorse energetiche, e cioè il 2010±5 circa, non è davvero niente male – come simulazione – per  un modello le cui integrazioni partono dalle condizioni iniziali relative all’anno 1900, vista l’estrema complessità delle equazioni differenziali usate, il loro numero[20], e il carattere non-lineare dei processi trattati.

Bisogna a questo punto specificare che, al contrario di quanto asseriscono la maggior parte degli economisti, oltre che l’IMF, la Banca Mondiale, e praticamente tutti gli organismi economici, l’energia in combustibili fossili non è una risorsa naturale come un’altra. Non vi è infatti un sostituto (per l’umanità) dell’energia. L’energia è la precondizione per ottenere tutte le altre risorse, e il petrolio è la più importante forma di energia che noi usiamo. Nessuna altra sorgente di energia uguaglia le qualità intrinseche del petrolio di estraibilità, trasportabilità, versatilità e – fino ad ora e ancora per un pò di tempo – costo. L’energia fornisce la potenza per sopportare il carico della nostra infrastruttura economica moderna e che la rende più produttiva (ossia meno dipendente dalla forza lavoro umana). Il petrolio è la risorsa energetica dominante per la rete di trasporti che sorregge l’economia globale, oltre che le strutture industriali pesanti e l’agricoltura. Bisognerebbe essere allarmati per questo? Si! La attuale civiltà industriale – così come l’agricoltura[21] – richiede massicci ed ininterrotti flussi di energia basata sul petrolio. L’IEA prevede (v. figura 4) che la domanda mondiale di petrolio - salita dai 68 milioni di barili al giorno del 1996 ai circa 76 di oggi – arriverà a 94 milioni di barili al giorno nel 2010.  Che cosa succederà quando la domanda di petrolio eccederà la massima produzione geologicamente possibile?

Penso che il lettore abbia capito che – anche trascurando per un attimo tutte le altre crisi ambientali globali e considerando la sola crisi del petrolio e del gas naturale –  l’attuale sistema di mercato (con il suo pensiero unico e il  suo sistema politico capitalistico) sta trascinando l’umanità in una folle corsa verso un livello di distruzioni finora mai visto e sperimentato. Siamo lanciati a tutta velocità contro un muro, e per ora stiamo anche accelerando. Faccio questa affermazione da un punto di vista strettamente scientifico, cioè non scendente da valutazioni etico-filosofico-politiche di sorta. Infatti l’affermazione di cui sopra scende dal fatto che l’attuale società di mercato, o capitalistica che dir si voglia, è basata, anzi non può fare a meno della crescita economica continua, in quanto questa è la condizione essenziale per permettere l’investimento e dunque la crescita del capitale – sotto qualsiasi forma e in qualsiasi quantità, dal più piccolo imprenditore alla più grande holding multinazionale.  La crescita economica continua è ovviamente un esponenziale, proprio a causa della legge di crescita di ogni capitale, e comporta ovviamente una altrettanto esponenzialmente crescente necessità di energia, e dunque di consumo di petrolio, gas naturale e carbone, visti i meccanismi di generazione di energia usati.  Nell’articolo da me pubblicato su “Imbrogli di guerra” lo scorso anno, abbiamo maggiormente analizzato il fatto che è la crescita economica esponenziale a produrre la crisi climatica, tramite la crescita esponenziale del consumo di energia, dunque anche delle emissioni e quindi delle concentrazioni dei gas di serra.  Adesso  va sottolinato - come vero e proprio corollario – che la crisi energetica è prodotta dalla stessa causa che produce la crisi climatica: le emissioni aumentano esponenzialmente proprio a causa della crescita esponenziale dell’uso dei combustibili fossili nel processo di generazione dell’energia.       

Bisogna ora fornire la valutazione che i geofisici – come per esempio quelli dell’Università dell’Ohio o quelli di Petroconsultants, etc. – danno dell’attuale situazione venutasi a creare con l’aumento del prezzo del greggio.   Non si tratta ancora della crisi da picco di produzione, ma piuttosto di quanto prevedeva Franco Bernabè 2 anni fa, mentre era CEO[22] dell’ENI, e cioè che l’avvicinarsi di quella crisi economico-geologica avrebbe prodotto ondate di crisi ben prima del picco, progressivamente più intense e con improvvise impennate dei prezzi del barile di greggio, a causa del fatto che, avvicinandoci al picco, il flusso di petrolio estratto – l’offerta – non riesce a tenere il ritmo di crescita della domanda.  Il prezzo continuerà ad oscillare – con instabilità sempre più marcata e richiedendo interventi politico-economici sempre piùimponenti – ma attorno ad un trend inesorabilemente crescente.  Il recente intervento della presidenza USA, che ha annunciato l’immissione nel mercato di nientemeno che 30 milioni di barili dalla riserva strategica degli Stati Uniti, è stato appena sufficiente a frenare l’aumento e a riportare il prezzo del greggio poco sopra ai 31$[23] al barile, in ogni caso quasi un fattore 4 più alto del minimo di 8$ di circa un anno fa.  È interessante notare che la richiesta dell’Unione Europea all’OPEC di aumentare di un milione di barili al giorno il tasso di estrazione – nonostante sia stata sostanzialmente accolta dall’Arabia Saudita, che ha promesso (ben prima dell’intervento di Clinton) 800.000 barili in più al giorno – non ha avuto l’effetto di fermare la crescita dei prezzi.  Al riguardo, è importante ricordare qui che le condizioni che determinano prima il rallentamento e poi lo stop del pompaggio[24] di un pozzo non sono nè economiche (legate cioè al prezzo) nè tantomeno legate all’esaurimento effettivo del pozzo, ma dipendono da motivi fisico-energetici (v. energia netta).

Vediamo ora le connessioni ed interdipendenze – quantitativamente –  tra la crisi energetica ed altre crisi, che analizzeremo in seguito.  Come il lettore più attento forse si aspetta, la più importante e distruttiva interazione della crisi energetica è quella con la crisi  agricola. Seguono, in ordine di importanza, ma ognuna con un potenziale distruttivo certo non trascurabile, quella con la crisi climatica, la crisi idrica, l’erosione dei territori arabili e, infine, la desertificazione. Al fine di permettere al lettore di poter valutare la potenzialità distruttiva della crisi energetica da picco estrattivo, diamo qui di seguito una breve ma precisa descrizione di tali interazioni.

Al contrario di quanto si pensi comunemente, la dipendenza della produttività agricola e quindi di alimenti dalla disponibilità di combustibili fossili (in particolare benzina e nafta) non è soltanto nel settore della meccanizzazione agricola. Ossia, l’enorme fabbisogno di carburante diesel e benzina non è “soltanto” dovuto alle necessità di arare i territori e di seminarli. Non si tratta “soltanto” dell’energia per pompare acqua per l’irrigazione, e nemmeno “soltanto” di raccogliere, processare[25], trasportare il prodotto e trasformarlo nel prodotto alimentare finale. Ciò che letteralmente domina la produzione mondiale di alimenti sono i fertilizzanti chimici –  largamente prodotti usando il gas naturale[26]  – e i pesticidi, prodotti principalmente usando prodotti chimici derivati dal petrolio.  Pimentel[27] valuta che se l’uso dei fertilizzanti, dei pesticidi e dell’irrigazione (ottenuta usando pompe azionate da motori diesel) venisse sospeso, la produzione di mais – per esempio – calerebbe di un fattore 8. Dunque, l’88% circa della produzione di mais è prodotto – per usare le parole di Pimentel – da “ettari fantasma”[28] di terreno, resi reali solo grazie all’uso massiccio di energia da combustibili fossili. Quando questo enorme aumento di efficienza agricola reso possibile dal gas naturale e dal petrolio non ci sarà più,  la produttività agricola sarà ridotta drammaticamente. Il fatto è che l’agricoltura moderna è in pratica “l’uso della terra per convertire il petrolio in cibo”, come dice Bartlett[29].  Pimentel calcola il dato medio per i raccolti di prodotto agricolo in generale[30]: circa il 90% dell’energia attualmente usata – su scala mondiale – nella produzione dei raccolti è dovuta a petrolio e gas naturale. L’intensità dell’uso petrolifero in agricoltura è anche espressa dal fatto che – per esempio – i cereali prodotti dalla agricoltura moderna, per ogni caloria in carboidrati immagazzinata a spese dell’energia solare dalla sistesi clorofilliana, richiedono da 4 a 10 calorie di combustibile.

            In modo molto reale e misurabile, il prezzo di molte altre sorgenti di energia che abbiamo poggia su un “sussidio” di petrolio a basso costo. In altre parole, parecchie altre forme di energia  che noi usiamo – includendo diverse forme di energia “solare” – come l’uso dei pannelli fotovoltaici – sono a basso costo e usabili vantaggiosamente perchè poggiano  sul petrolio a basso costo. Quando il petrolio comincerà a scarseggiare, il prezzo di un certo settore “solare” andrà alle stelle, insieme con tutte le sorgenti che sono solo in apparenza “alternative” (i.e., che non siano del tutto indipendenti dal petrolio) e in maniera direttamente proporzionale al petrolio usato in ogni fase della loro costruzione e trasporto.

 

          Valutiamo ora la situazione – quantitativa – delle altre possibili sorgenti di energia (i.e., oltre al petrolio e al gas naturale, il cui tasso di produzione raggiungerà il massimo tra circa dieci anni). Ricordiamo però che tutte quelle sostanze e carburanti che non sono reperibili in natura ma sono prodotte con un dispendio di energia (per mole) maggiore dell’energia ottenuta bruciandoli, non sono sorgenti di energia ma assorbitori ed hanno semmai un senso come mezzi di trasporto di energia (ovviamente con perdita netta). Tali sostanze sono riportate brevemente con la dizione “assorbitore”. È indispensabile fare questo review dei vari metodi per produrre energia, in quanto c’è una notevole disinformazione (anche tra i ricercatori) su quelle che sono le effettive sorgenti di energia disponibili. Infatti, chi avesse la errata nozione della disponibilità di una vasta scelta di diverse sorgenti di energia, sarebbe poi portato a valutare la crisi energetica in arrivo da una prospettiva ben diversa da quella necessaria.

¨       Carbone

Al tasso di consumo attuale, ce ne sarebbe per circa altri 80-100 anni[31]. Ciò parrebbe dare un pò di respiro, anche se moltissime attività non potrebbero essere alimentate a carbone, come e.g. l’aviazione, e anche se la trasformazione in energia elettrica sarebbe limitata in pratica – dal secondo principio della termodinamica – ad un efficienza di appena il 14-16%.  Ahimè, in realtà non è così semplice: infatti, al raggiungimento del picco di estrazione del petrolio e subito dopo del gas naturale,  quasi tutte le attività agricole e industriali che ora sono alimentate a petrolio e a gas dovranno usufruire dell’energia elettrica generata a carbone.  Questa transizione di consumo energetico causerà un aumento vistoso (più di un fattore 2) del consumo del carbone rispetto ai tassi di consumo attuali. Tenendo conto di questo, il tempo scala della disponibilità del carbone si riduce a 40 anni.  Se poi teniamo conto che comunque – in qualsiasi regime – il tasso di consumo non è costante, ma aumenta per lo più esponenzialmente – almeno fino all’arrivo di un crash economico sistemico -  allora otteniamo un tempo scala ridotto a circa 25-30 anni.  Inoltre, purtroppo, il carbone non è cosi facilmente estraibile, e attualmente più  del 50% dell’energia necessaria per estrarlo è proveniente dal petrolio, così come il 90% dell’energia necessaria ad abbassare la concentrazione di zolfo contenuto nel carbone.  E i guai di un uso all out  del carbone per produrre l’energia  non finiscono qui. La trasformazione del carbone in idrogeno (maggiormente trasportabile e utilizzabile in macchine a combustione interna) ottenibile con reazioni di ossido-riduzione come 2H2O + C à 2H2 + CO2 ècomunque ottenuta con una perdita di energia notevole (si deve usare vapore ad alta temperatura, oltre all’energia per il trasporto e per il funzionamento dei macchinari) e producendo una molecola di anidride carbonica ogni due di idrogeno, contribuendo alle emissioni di gas serra che sono causa della crisi climatica.  Analogamente, la sintetizzazione di carburanti diesel usando il carbone risulta in un grande dispendio di energia, riducendo drasticamente l’energia netta ottenuta e producendo comunque anidride carbonica in proporzione 1:1 molare rispetto al carbonio consumato. Poi bisogna ricordare che le centrali che producono energia elettrica a carbone producono anche un alto tasso di inquinanti acidi, sotto forma di particolato di SO2 e SO3, oltre che ceneri e smog di ogni tipo, che danneggiano il prodotto agricolo, oltre che la salute. Per finire il quadro del carbone, non dimentichiamo che, per ogni kilowatt di potenza ottenuti bruciando carbone, si produce una quantità di anidride carbonica che è superiore di circa il 33% a quella che si ottiene bruciando i combustibili liquidi derivati dal petrolio.  Quindi  l’arrivo del famigerato picco del petrolio e del gas naturale, oltre a scatenare una crisi economica basale sistemica distruttiva, accelererà sostanzialmente – a parità di consumi e di prodotto industriale lordo – la già drammatica crisi climatica, rendendo – se mai possibile – ancora più difficili le misure da prendere per evitare un effetto serra del tutto fuori controllo, come analizzeremo in seguito.

¨       Sabbie e scisti bituminosi

Sorgente di energia netta pressochè nulla. Nonostante la grande abbondanza di tali risorse (equivalenti a 300 Gb[32] di petrolio), il trattamento chimico/termico necessario (vapore ad alta temperatura, processi industriali di produzione della soda caustica necessaria, etc) fa uso di gas e/o olio combustibile in grandi quantità, che rende tale risorsa appena marginale o nulla come sorgente di energia, e da abbandonare nonappena arriverà lo shortage[33] del petrolio.  Infatti, il problema degli scisti bituminosi è che devono essere spezzettati e schiacciati dopo essere stati estratti, e i macchinari per fare questo bruciano combustibile diesel. Il sollevare, spostare il materiale ( da 2 a 3 volte più pesante del petrolio ricavato) consuma altra energia, così come la separazione, il trasporto e l’eliminazione delle scorie così ottenute. Ovviamente, c’è poi anche il processo di raffineria e trasporto, così come per il normale petrolio, che consuma ancora altra energia. Già alla fine degli anni settanta  si scoprì che veniva usato circa un barile di petrolio per produrre un barile di petrolio da scisti bituminosi. In altre parole, l’energia netta era zero. Dunque, il prezzo di produzione non ha importanza in questo caso. Uso in teoria limitato al periodo in cui è disponibile il petrolio a bassi prezzi, ma praticamente non attuabile per l’alto costo del resto del ciclo di produzione.

 

 

¨       Idrati sul fondo degli oceani

Il metano idrato potrebbe trovarsi in un ambiente ad alta pressione come nelle condotte di gas oppure nei sedimenti oceanici. Quando viene decomposto, un’unità di volume di idrato fornisce 150 unità di metano e 0.85 di acqua. Tuttavia, dopo prospezioni e studi approfonditi, tale risorsa non è giudicata essere una credibile alternativa. Per esempio, Laherrere in un suo paper recente mostra che non c’è nessuna evidenza – da tutto l’estensivo carotaggio effettuato nel mondo – di depositi di idrati di apprezzabile entità.

¨       Biomasse

       A livello mondiale possono fornire al massimo un 15%-20% dell’attuale fabbisogno di energia. Si possono usare diversi tipi di biomassa come combustibile, che ovviamente metterebbe in circolo la stessa qunatità di CO2 che è servita per far crescere le piante che l’hanno assorbita, e che verrà di nuovo assorbita da nuova massa clorofilliana, etc., in circolo chiuso. Essenzialmente possiamo dividere la biomassa vegetale in foreste, erbe e canne, “spuntature” di agricoltura. L’uso – controllato e programmato in quantità e tassi – delle foreste è preferibile, in quanto le foreste sono la risorsa di biomassa più abbondante e concentrata, mentre la canna è dispersa e il solo raccoglierla e convogliarla ai siti di utilizzo brucierebbe un’energia comparabile, e in molti casi superiore a quella ottenuta. Ma anche nel caso dell’uso programmato di biomassa forestale, il  guadagno netto di energia non è così alto come si può pensare. Per esempio, una media di 3 tonnellate di biomassa in legno si può raccogliere sostenibilmente all’ettaro e all’anno. Ciò fornisce una energia lorda di 13.5 MCal (i.e. milioni di kcal) ma il rendimento netto è ovviamente minore, in quanto circa 33 lt di nafta/ettaro/anno sono spesi per raccogliere e trasportare il legno, assumendo 80km il percorso medio. La trasformazione in energia della biomassa – per ovvie ragioni – non può spesso avvenire vicino a dove essa viene raccolta, e questo taglia fortemente l’efficienza dell’intero processo (abbassa l’energia netta ottenuta).  Per avere quantitativamente il quadro energetico possibile dall’uso della biomassa, facciamo il seguente esempio, che si può poi – approssimativamente – usare in proporzione.  Una città di 100.000 abitanti che per produrre energia usa sostenibilmente[34] come carburante la biomassa di una foresta (3 ton/ha/year) richiede approssimativamente 220.000 ettari di area forestale, stimando una domanda di energia pari a un TWh/year[35]. Circa il 70% del calore ottenuto bruciando la biomassa viene disperso durante la conversione in elettricità (rendimento »30%, simile a quello delle centrali elettriche a carbone). L’area richiesta per la crescita della necessaria biomassa è circa la stessa attualmente usata da 100.000 persone per produrre gli alimenti, produrre e mantenere gli alloggi, l’industria e le strade. Tanto per essere più chiari, nel caso degli Stati Uniti, la biomassa potrebbe fornire al paese 5 quad[36] del suo fabbisogno totale di energia nel 2050 usando almeno 75 milioni di ettari (un’area più grande del Texas, o approssimativamente l’8% del territorio degli interi Stati Uniti).  Per dare una misura esatta del problema, per esempio proprio nel caso degli Stati Uniti, il 75% di tutto il territorio è attualmente sfruttato per l’agricoltura e le foreste, rimane quindi ben poco per la produzione di biomasse e l’uso massiccio di tecnologie solari.  Il lettore comprende che non si può coltivare biomassa in maniera utilizzabile sulle montagne, e ovviamente neanche nei deserti, nei fiumi, nei laghi o nelle città, e si capisce che non lo si può fare neanche nei territori necessari per produrre alimenti.  Soprattutto quest’ultimo è il problema: non si può utilizzare per produrre energia con la biomassa il cosiddetto territorio “primario”, che serve per la produzione di alimenti. Ma questo non è affatto l’unico problema: tale sistema di produzione di energia richiede enormi quantità di macchinari, fertilizzanti, pesticidi, e carburante… diesel! Pena un rendimento così scarso che abbasserebbe i rendimenti sopra descritti di un fattore da 4 a 10.  Il lettore ha compreso che il calcolo sopra eseguito era chiamato “sostenibile” soltanto ai fini del taglio e della ricrescita della foresta. Se si fosse fatto ricorso alla sostenibilità come criterio assoluto (cioè niente sussidio dei carburanti daerivati dal petrolio), avremmo dovuto concludere che serve un territorio di dimensioni da 4  a 10 volte il Texas!  E non abbiamo mica finito qui:  un processo di generazione dell’energia come quello sopra descritto comporta perdita della biodiversità, consumo enorme di acqua e infine erosione del suolo fertile. Tanto per aggiungere – se mai fosse servito – qualcosa d’altro, il bruciamento delle biomasse è fortemente inquinante (particolati che causano bronchite, enfisema, asma, e tumori). Il particolato liberato in atmosfera dal bruciamento della biomassa contiene 14 carcinogeni, 4 cocarcinogeni, 6 tossine che danneggiano gli occhi, e altri agenti che coagulano il muco bronchiale[37]. Sono presenti – inoltre – diversi PAH (idrocarburi policiclici aromatici) come il benzopirene. Anche gli ossidi di zolfo e azoto e le aldeidi sono presenti in piccole ma significative quantità. Molte di queste sostanze (il 70%) possono essere rimosse con opportune procedure di filtraggio, che però riducono l’efficienza energetica del processo. L’inquinamento da biomasse è tuttavia meno forte di quello da bruciamento di carbone.

        In definitiva, il raggiungimento – in maniera sostenibile anche sul lungo periodo – di una frazione dell’ordine del 15% dell’energia totale ottenuta con biomasse è quantomai ottimistico. Inoltre – e peggio ancora – se dovessimo alimentare tutta la attuale “flotta” di automobili[38] con le biomasse tramuteremmo velocemente il nostro pianeta in un deserto.

 

¨       Etanolo

Questo combustibile liquido ottenuto da biomasse (da amidi, zuccheri, scarti di produzione di cibo, scarti legnosi, etc.) viene comunemente ritenuto una sorgente di energia. Non lo è. Per produrre un litro di etanolo si deve usare un totale in combustibili fossili (prevalentemente petrolio) di 10200 kilocalorie, ma lo stesso litro di etanolo, una volta bruciato fornisce un’energia di sole 5130 kcal. Quindi l’etanolo è un assorbitore di energia (“energy sink”).Il dispendio di energia maggiore per produrre l’etanolo è nell’energia necessaria per il processo di distillazione.  L’etanolo può essere giustificato – ma con grande dispendio di energia, quindi non in tempi di crisi energetica – solo come mezzo di trasporto di energia, dove il carburante liquido è assolutamente necessario ma si vogliono evitare gli effetti di inquinamento maggiore dell’uso di benzine o nafta. L’inquinamento totale, però, cioè non solo quello cittadino dove si muoverebbero i veicoli ad etanolo, non è affatto minore, in quanto vengono liberati – nel processo di produzione – ossidi di azoto, formaldeide ed altre aldeidi.  Inoltre, l’uso di etanolo contribuisce doppiamente all’effetto serra rispetto all’uso diretto della benzina e della nafta, in quanto per produrre un litro di etanolo si deve bruciare il doppio dell’energia in combustibili fossili.

¨       Metanolo

È un assorbitore di energia, anche se non così svantaggioso come l’etanolo. Per produrre il metanolo si possono usare varie materie prime, tra cui il gas naturale, il carbone, il legno e i rifiuti solidi urbani. Attualmente, il materiale più usato è il gas naturale.Il limite maggiore nell’uso di biomasse per produrre il metanolo è l’enorme quantità necessaria per una centrale di dimensioni adeguate. Una tale centrale, infatti, necessiterebbe di almeno 1250 tonnellate di biomassa secca al giorno. Più di 150 mila ettari di foresta servirebbero per far marciare una sola centrale.  Se il metanolo venisse usato come sostituto per il petrolio negli Stati Uniti, da 250 a 430 milioni di ettari di terra servirebbero per produrre il materiale per alimentare le centrali. Tale territorio è ben più grande dei 162 milioni di ettari del territorio agricolo usato per il raccolto negli Stati Uniti. Dal punto di vista dell’efficienza di produzione, però , il metanolo viene prodotto con più efficienza dell’etanolo, anche se comunque con perdita di energia.  Anche il metanolo è dunque un assorbitore di energia, non una sorgente.

¨       Idrogeno

È un assorbitore di energia.  Per esempio, producendolo per elettrolisi, ci vogliono 1.3 kWh di energia elettrica per produrre una quantità di idrogeno che libererebbe, se bruciato, 1kWh di energia. Producendo l’idrogeno usando l’energia solare tramite pannelli fotovoltaici, se questi richiedono 2700 ettari per fornire  1 miliardo di kWh, ne servono 3510 per produrre la stessa energia in idrogeno[39].  L’idrogeno si può anche produrre tramite reazioni di ossido-riduzione tipo 2H2O+Cà2H2+CO2, facendo passare vapore d’acqua ad alta temperatura sul carbone. In questa reazione il carbonio si ossida (e produce anidride carbonica che va ad incrementare l’effetto serra) mentre l’idrogeno nella molecola d’acqua si riduce. Purtroppo anche qui viene consumata molta più energia di quella ottenuta.  Per non considerare le enormi quantità d’acqua che dovrebbero essere sottratte all’agricoltura e all’industria per sostenere il processo nelle quantità richieste.  Meglio l’elettrolisi, sia pur con la perdita del 30% circa.  L’impatto ambientale (locale) del bruciamento dell’idrogeno è però minimo rispetto all’etanolo (anche se ovviamente la produzione di CO2 a monte non è trascurabile).

¨       Eolico

È una sorgente netta di energia. Esistono turbine di potenze molto diverse: da quelle “piccole” (5 kW) fino a 100-500 kW. Il problema è che il sito prescelto deve avere frequentemente venti preferibilmente nel range 16-22 nodi (circa 8-11 m/sec). È una tecnologia in grande sviluppo commerciale. Un altro problema è il numero di “macchine a vento” che un sito può ospitare. In un posto abbastanza ventoso, per esempio (rientrante nel range dato sopra) una media di una turbina ogni 2 ettari permette di produrre la massima potenza (sufficiente spazio inter-turbina). Secondo questa stima, un’area di quasi 12 mila ettari sono necessari per produrre 1 miliardo di kWh/anno. L’area si può anche sfruttare contemporaneamente come pascolo, o per crescere ortaggi. Il settore eolico può raggiungere – su scala mondiale – una frazione di 5-6% dell’attuale fabbisogno.

¨       Fotovoltaico

L’energia netta ottenuta dipende essenzialmente dalla vita media delle celle solari, una volta messe a produrre energia elettrica. Assumendo un’efficienza media di circa il 7.3%, per produrre un terawattora (un miliardo di kWh) di energia elettrica all’anno ci voglion approssimativamente 2700 ettari di terra. Ci sono stime diverse del rendimento finale, che per Odum ed altri, nelle stime più recenti, è comunque negativo. Secondo calcoli effettuati da Pimentel, bisogna fare attenzione al fatto che per avere un sistema produttore di energia netta non nulla o negativa (sarebbe allora un assorbitore) bisogna fare in modo che la vita media delle celle superi gli 8 anni circa, all’efficienza sopra citata.  Si tenga presente, per esempio, che per costruire un impianto che fornisce un miliardo di kWh, sempre secondo il calcolo di Pimentel[40], bisogna impiegare un’energia di circa 300kWh/m2, che per la superficie di cui sopra fa 8.1´109 kWh. È evidente come sia critica la “durata di produzione” affinchè il sistema non diventi in realtà un assorbitore. Secondo H. Odum, invece, in più recenti e dettagliati calcoli che tengono conto di ulteriori perdite di energia lungo il ciclo di produzione e mantenimento degli impianti a pannelli fotovoltaici[41] (come strutture in cemento ed acciaio, cablature in rame, manutenzione statica ed elettrica, etc.) il bilancio è molto peggiore, assegnando ai sistemi di pannelli un’energia prodotta netta negativa. Per Odum, infatti, il sistema di produzione di energia basato sui pannelli è comunque un assorbitore di energia netta, in quanto il rapporto tra energia prodotta ed assorbita risulta minore di 1, e – per esempio nel caso dell’istallazione solare fotovoltaica ad Austin, Texas[42] – è uguale a 0.48. Il calcolo, rispetto a Pimentel, tiene conto del fatto che al denominatore di tale rapporto non vi è un numero costante nel tempo, dipendente cioè solo dalla superficie in pannelli considerata,  ma aumentante nel tempo, a tenere conto della necessaria manutenzione e sostituzione materiali necessari. Tale rapporto indica che in un tipico impianto americano, l’energia prodotta è in realtà circa la metà dell’energia necessaria per la costruzione e manutenzione.[43] Inoltre, un problema ambientale abbastanza grave è costituito dall’uso – nel processo di costruzione – di sostanze molto tossiche, come il solfuro di cadmio  e l’arsenuro di gallio. Tali sostanze persistono nell’ambiente per secoli, e il trattamento dei relativi rifiuti in grandi quantità non ha praticamente soluzione. Le celle di nuova concezione al silicio riducono questo problema, ma aumenta il costo in termini di energia necessaria a monte per produrle.

¨       Idroelettrico

Rappresenta ovviamente una sorgente netta di energia, anche se limitata all’istallazione in presenza di fiumi di grossa portata, e soprattutto limitata dal fatto che i corsi d’acqua scorrono spesso in valli nelle quali il terreno è necessario per la coltivazione. Altra limitazione è costituita dall’elevato numero di insediamenti cittadini nei suddetti bacini. In ogni caso, il contributo dell’energia idroelettrica può arrivare al massimo a un 4-5% dell’attuale fabbisogno mondiale di energia, frazione che tenderà a scendere al crescere del prodotto industriale mondiale, ossia con la crescia ecenomica indispensabile all’attuale sistema di “mercato”. Nel caso del territorio USA, l’attuale frazione del 9.5% (di idroelettrico rispetto al fabbisogno USA) può crescere al massimo fino al 10%, tenendo appunto conto delle limitazioni geografiche, agricole, e metropolitane.

¨       Nucleare

Text Box:  
Figura 5a  La frequenza annuale dell’avvio della costruzione di nuove centrali nucleari nel mondo. Dati 1960-1999 dal Worldwatch Institute.

Scartiamo la fusione, il cui orizzonte temporale è completamente al di fuori dei tempi prevedibili della crisi energetica.  Infatti, per la progettazione scientifico-tecnologica e la realizzazione su scala industriale mondiale si stima che il tempo necessario sia più di 40-50 anni. Tale tempo può essere persino  ottimistico, se si pensa che – per avere un effetto sulla produzione mondiale di energia – la fusione dovrebbe essere implementata anche nei grandi paesi in via di sviluppo e in tutto il Sud del mondo.  La produzione di energia nucleare sta rallentando[44](vedi anche figura 5a)   a causa del fatto che il mantenere standards di sicurezza ai minimi livelli accettabili  (minimi in rapida crescita anche nell’Est europeo e nei paesi in via di sviluppo, oltre che in Giappone – dopo gli ultimi ripetuti incidenti – e in Europa occidentale) il costo delle centrali ha superato il prodotto in energia.  Per questo motivo, la curva che rappresenta il numero di nuove centrali messe in produzione ha raggiunto il massimo circa 25 anni fa, ed è in costante declino (oggi siamo sotto al 7% del massimo raggiunto) con un tasso crescente di decommissioning.    Affinchè il problema della generazione dell’energia tramite fissione nucleare sia ben compreso dal lettore, citiamo uno studio del World Watch Institute di Washington. Secondo quest’ultimo, per produrre soltanto 1/3 dell’attuale fabbisogno di energia (essenzialmente il settore elettrico) usando il solo nucleare, servono circa 5350 nuove centrali da 1 GW[45] l’una, da costruire entro il 2025 (tenendo conto dell’aumento della popolazione e della crescita economica), pari a circa una centrale ogni due giorni circa in media!  Non solo, ma il costo di questa gigantesca operazione richiederebbe l’impiego di 2.5 volte il PIL degli Stati Uniti.  A parte le considerazioni ecologiche, è evidente l’irrealizzabilità economica di tale progetto, che comunque “risolverebbe” soltanto 1/3 del problema.  Il pericolo di incidenti e l’accumulo di quantità enormi di scorie (ad un tasso più di 15 volte maggiore dell’attuale[46]) rendono tale strada del tutto impossibile.  Se si passasse – per tali centrali – alla variante ai neutroni veloci[47], ogni centrale produrrebbe circa 1000 kg di plutonio all’anno, e quindi – a regime – avremo la produzione di più di 5300  tonnellate di plutonio all’anno. Sapendo che tale sostanza è estremamente tossica – oltre che cancerogena – e che si può confezionare una bomba atomica con circa 10 kg di plutonio, la variante considerata qui – che comunque costerebbe anche di più della variante normale – è ancora più irrealizzabile.

¨       Sistemi di conversione di energia solare termica

Si può immagazzinare l’energia solare tramite i cosiddetti solar ponds[48]. Alternativamente, si possono usare specchi concavi ad inseguimento solare, che concentrano la radiazione solare su speciali tubazioni, generando vapore che aziona turbine ed alternatori. Comunque, non più dello 0.5-1% del fabbisogno di energia può essere generato con tali metodi. Per questi sistemi, un flusso continuo d’acqua è necessario, e la quantità per sostenere la produzione a livelli apprezzabili è insostenibile su grande scala. Questo problema peggiorerà ancora, con l’arrivo della imminente crisi idrica.

¨       geotermico

solo una trascurabile frazione del fabbisogno è ottenibile utilizzando il vapore e le altre manifestazioni da geotermia, a causa della distribuzione di tali sorgenti e della necessarietà di particolari condizioni e caratteristiche del gettito di vapore, etc. Siamo sotto allo 0.5%, molto ottimisticamente.

¨       onde e maree

Con uno sforzo economico e tecnologico enorme – e inizialmente sussidiarizzato dal petrolio che ci resta da sfruttare, e quindi in competizione con gli altri usi – si possono costruire impianti, su alcune zone costiere[49], che generano energia facendo girare alternatori azionati da pistoni-galleggianti e bielle. Il tempo scala dell’implementazione su scala mondiale è stimato in 20-30 anni. Ma anche se uno sforzo economico improbabile[50] realizzasse tale sistema, la durata contro la corrosione, la necessità che le strutture resistano ad ogni tempesta (Beaufort F9-10) e l’evidente impossibilità di circondare tutte le coste con impianti siffatti rimangono gli evidenti limiti di questo sistema. Si può calcolare – molto ottimisticamente – di poter raggiungere una prioduzione di 5-7% del fabbisogno.

 

Possiamo ormai fare un bilancio della frazione di energia – rispetto al fabbisogno totale attuale – ottenibile sommando tutte le  possibili sorgenti di energia netta rinnovabile. Possiamo arrivare al 30-35%.  Naturalmente, se la crescita economica continuerà come nel trend BAU[51], con un tempo di raddoppiamento di circa 19 anni, tra circa 20 anni la frazione qui sopra indicata scenderà al 15-17.5%, in quanto il fabbisogno di energia cresce circa proporzionalmente al prodotto industriale[52].  Senza contare l’aumento di popolazione. Tenendo conto di una popolazione mondiale che nel 2020 sarà nel range [8,10] miliardi di individui, la frazione del fabbisogno energetico scende a  9-13% circa (fattore 6/10-6/8).  Il lettore  si rende facilmente conto che 20 anni di tempo non sono certo molti, prima di tutto in generale[53] e inoltre tenendo conto che in questo lasso di tempo prenderà massima forza la crisi idrica, saremo in piena crisi climatica, la deforestazione sarà circa ai 2/3 del totale possibile al presente tasso, i territori arabili saranno ridotti di circa il 20-30%, e tenendo conto della crescente probabilità di conflitti locali, regionali, e globali per conquistare il dominio su – o per difendere – territori e risorse. 

È il caso di dire che  la situazione dinamica che stiamo vivendo è insieme drammatica ed esplosiva. Drammatica per la sopravvivenza, in concomitanza con la crisi demografica. Esplosiva per la sempre più minacciosa incombenza di probabili conflitti, non escludendo quelli inter-regionali e globali.

Prima di passare ad analizzare alcuni gravi elementi della crisi climatica – sia quelli non esaminati nell’articolo dello scorso anno, sia le novità sopraggiunte nel frattempo -  finiamo di considerare le potenzialità distruttive della crisi energetica.  1) La caratteristica di questa crisi è la concentrazione in un lasso di tempo brevissimo del suo massimo impatto – da 10 a 20 anni – al contrario della crisi climatica, di maggior potenziale distruttivo totale ma più graduale e distribuita su un periodo più lungo.  2) Inoltre – ma attenzione al significato militare – la crisi energetica è di grande minaccia per la pace soprattutto perchè farà fermare per sempre la crescita economica[54] e provocherà un collasso economico profondo immediatamente dopo il raggiungimento del massimo prodotto industriale. Ciò demolisce del tutto la principale ragion d’essere, l’obiettivo continuo, del sistema di mercato  (o capitalismo che dir si voglia): e cioè renderà impossibile l’investimento, la crescita continua del capitale. La parte del mondo – l’ “Occidente” –  che ha la massima potenza economica è anche la parte che possiede la massima potenza militare. Quest’ultima è  direttamente proporzionale alla potenza economica. Sappiamo tutti che ai primi accenni della crisi economica sistemica indotta dalla crisi energetica comincierà ad aumentare l’aggressività dell’Occidente, e almeno degli USA, e in breve diventerà massimo il rischio di guerra.         3) C’è un’altra considerazione che viene evidente su questo punto della correlazione tra la crisi energetica in arrivo e il rischio di guerra, e la si può leggere direttamente nella figura 2, in cui la produzione di petrolio mostra lo scavalcamento dell’OPEC sui paesi non-OPEC nel 2007 circa. Anche qui, dopo tale cross-over, in cui la produzione di petrolio sarà dominata dai paesi OPEC, e in particolare da quelli mediorientali, la parte del mondo che ha la potenza militare non avrà il dominio del petrolio, non ne controllerà più il tasso di  produzione. In particolare, la produzione di petrolio sarà controllata principalmente dai paesi OPEC mediorientali. Questo è un ulteriore fattore  che aumenterà la probabilità di conflitto. È anche probabile che questo fattore spingerà il mondo arabo all’alleanza con i tre grandi paesi orientali. Avvisaglie di questo si vedono già nelle posizioni del G77&China nei negoziati sul clima[55]. Resta da vedere la capacità occidentale di scatenare un conflitto – tra l’altro dalle sorti più che dubbie, visto che sarebbe contro Cina, Russia, India e mondo Islamico –  prima che la crisi economico-energetica renda troppo debole la potenza militare dell’Occidente. Altrettanto da vedere – e abbastanza imprevedibile – è come e che ruolo giocherà l’Unione Europea, sempre che resista all’urto della crisi economica e che esista ancora al momento critico. L’interesse europeo – ad un’analisi razionale oltre che ragionevole – sarebbe certo di guadagnarsi presto una neutralità tra USA ed Oriente, ma il tempo stringe, e non mi pare proprio di vedere una qualsiasi accelerazione – nè una “decisa” volontà politica – in questa direzione[56]. L’estremo rischio ed aleatorietà di una tale prospettiva a breve scadenza (10-20 anni) è evidente a tutti.         

3. La crisi climatica

    –  le novità, i feedback positivi, e il trend al quadruplicamento della CO2.

           

Diamo qui un breve resoconto delle novità sulla crisi climatica, apparse in letteratura recentemente (dopo l’IPCC SAR, i cui contenuti scientifici sono stati da me descritti su “Imbrogli di Guerra” lo scorso anno). Mi restringerò ad un sottoinsieme di nuovi elementi, che rendono il quadro scientifico della crisi climatica ancor più chiaro e stringente. Descriverò qui anche il pericolo rappresentato dai feedback positivi ancora non inclusi in tutti i modelli, e i nuovi dati  (di quest’anno) sulle misure effettuate a questo scopo, sulla tundra in Alaska, in Groenlandia e in Siberia. Riporterò anche i recentissimi dati sullo scioglimento progressivo della banchisa artica e un recente review sul problema del possibile collasso della banchisa ovest-antartica (WAIS[57]). In conclusione di questa sezione sul clima mostrerò una inquietante estrapolazione della temperatura mondiale alla concentrazione di CO2 di 500 ppmv[58].

1) innanzitutto, i modelli climatici usati nel SAR non usano concentrazioni di gas serra transienti, ma fanno calcoli all’equilibrio, ipotizzando ottimisticamente che la COsia solo raddoppiata rispetto al valore preindustriale, ossia abbia raggiunto – e si sia stabilizzata – nel 2100 il valore di 560 ppmv. Questa è una stima superottimistica in quanto conta tacitamente sul fatto che i governi riescano a frenare la crescita delle emissioni (e dunque la crescita economica) che altrimenti, continuando sul trend attuale[59], raggiungerebbe valori nel range [1000,1500] parti per milione, con il valore best estimate di circa 1300 ppmv! La crisi climatica corrispondente a tali concentrazioni sarebbe devastante, viste le già terribili conseguenze della crisi “al raddoppio” (o 2xCO2) descritta nel precedente articolo. L’aumento di temperatura previsto in un “mondo 4xCO2”  è nel range [+3,+7] °C, ben più alto di quello previsto dal SAR[60] IPCC. Il Chairman IPCC, R. Watson, ha comunque annunciato l’implementazione di modelli 4xCO2 per il rapporto scientifico del 2005.

2) Purtroppo, anche i dati paleoclimatici provenienti dal carotaggio della stazione antartica russa di Vostok puntano ad un riscaldamento globale ben più accelerato – in risposta all’immissione della CO2 proveniente dai processi di generazione di energia – di quanto calcolato dai modelli IPCC nella versione 1995. i dati di Vostok (ultimi 420.000 anni) mostrano infatti che, correlando la concentrazione di CO2 con la temperatura misurata nello stesso periodo, si ottiene un valore della temperatura – estrapolato al 2100 – nel range 10-15 °C, anzichè 1.5-4.5. Ciò che rende preoccupante  questa estrapolazione estratta dai dati è che le misure – ovviamente – includono ogni fenomeno climatico realmente avvenuto, e non soltanto quelli modellizzati. In particolare, mi riferisco ai feedbacks positivi del permafrost, della diminuzione dell’albedo da scioglimento dei ghiacciai, della progressiva riduzione dei sinks clorofilliani che non riescono a tenere il passo del riscaldamento, etc. Questo vuol dire (vedi figure 5 e 6) che le previsioni di un riscaldamento di “soli” 1.5-4.5 gradi dei vecchi modelli del 1995 sono probabilmente sensibilmente sottostimate.      Non sappiamo esattamente di quanto, visto che quella menzionata è una estrapolazione, ma le ultime relazioni presentate allo Hadley Center (UK Met. Office) e al NOAA riscontrano chiaramente dai dati un riscaldamento dal passo ben più veloce di quanto calcolavamo solo 5 anni fa. In ogni caso, il lettore fisico che voglia andare a riguardare la formula da me mostrata nel precedente articolo[61] – che esprime il tasso di riscaldamento da effetto serra, calcolato tramite trasporto radiativo – si accorge che la derivata temporale della temperatura è crescente – tramite relazione integrale – con la concentrazione di gas serra. Ciò fa sospettare fortemente che la semplice estrapolazione lineare mostrata nelle figure fornisca una stima

Figure 6  La correlazione tra l’anomalia della temperatura e la concentrazione di CO2 dai dati del carotaggio di Vostok. Coefficiente di determinazione: r2@0.77. Statistica e correl.: GDI 1999.

Figure 7 La correlazione mostrata in fig. 6  è estrapolata qui fino a una concentrazione  di CO2  di 500 ppmv., i.e. quasi fino al doppio del valore preindustriale.  GDI 1999

 

 


 

addirittura per difetto della temperatura in equilibrio con 500 ppmv di CO2. Infatti, i dati di Vostok (v fig. 6 e 7) si riferiscono a situazioni che hanno visto una escursione di concentrazione di CO2 da circa 180  a circa 285 ppmv. Il tasso di cattura di radiazione infrarossa per quel range di concentrazioni è senz’altro più basso di quello che avviene nel range estrapolato, da 285 a 500 ppmv. Inoltre, il feedback negativo da albedo dovuto a copertura nuvolosa – che in teoria potrebbe mitigare il riscaldamento – non scatta almeno fino a circa 10 gradi (vedi articolo precedente, ibid. fig. 10).  Possiamo quindi aspettarci una sensibilità del clima alla CO2 più che doppia (se non tripla) rispetto a quanto calcolato dai modelli nel 1994-1995.  Molti laboratori stanno lavorando all’inclusione dei feedbacks mancanti nei modelli (sono predominantemente positivi).

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Figura 8 La struttura – in spaccato verticale – della WAIS (Banchisa Ovest-Antartica). Il collasso può avvenire per scioglimento del ghiaccio alla base della struttura (sul fondo marino) a causa del riscaldamento dell’oceano.

            3) i nuovi dati sul tasso di scioglimento dei ghiacciai indicano una accelerazione.  La stima se il maggior accumulo di precipitazioni nevose sull’Antartide compensi o meno il processo di scioglimento e il vistoso calo della massa delle banchise antartiche non è ancora disponibile. In compenso, purtroppo, la pubblicazione – da parte del NOAA – dei dati (misurati da satellite) sullo scorrimento dei “fiumi” di ghiaccio in Antartide rivela che le velocità di scorrimento a mare risultano essre dieci volte maggiori di quanto si riteneva precedentemente.  Gli ultimi calcoli sul bilancio della massa di ghiaccio della Groenlandia mostrano che lì è negativo: il ghiaccio si sta riducendo.

4) Il problema della stabilità della Banchisa Ovest-Antartica è stato recentemente sottoposto a review della recente letteratura in un articolo su Nature nel 1998[62], in cui si mostra che non è possibile fare con attendibilità l’assessment sulla stabilità della banchisa in questione. In pratica non possiamo neanche escludere  lo scenario in cui la parte di banchisa che poggia sul fondo sia sciolta dalle correnti marine riscaldate dal global warming e che questo destabilizzi la struttura (vedi figura 8) causando un aumento del livello del mare che alla fine del processo sarebbe dai 4 ai 6 metri. Il grosso della banchisa sarebbe scaricato a mare in un periodo dai 50 ai 200 anni. In particolare, gli estremi dell’intervallo sono “laschi”, cioè da non prendere come estremi rigidamente affidabili.

5) i dati sullo scioglimento del permafrost (lo strato di terreno permanentemente – fin qui…–   ghiacciato, di spessore dai 50 ai 150 metri circa) indicano un’accelerazione in Alaska, in tutto il nord del Canada, e in Siberia. In Alaska intere strade statali sprofondano per l’ammorbidirsi del substrato, i pali della luce e grossi alberi si inclinano, buche profonde si stanno formando un pò ovunque. Lo stesso viene riportato da diverse località siberiane (come Severnaya Zemllja e Severo-Sibirskaja Nizmennost’).  Il riscaldamento globale, che nel secolo appena passato – in temperatura media mondiale –  è stato dell’ordine di 0.6 – 1 °C, a queste alte latitudini è stato da 5 a 6 volte maggiore: (3-6°C). Il problema dello scioglimento del permafrost in atto è che contiene – secondo le diverse stime – da 1/3 a 1/2 della quantità di metano attualmente in atmosfera.     La tundra si sta già trasformando da assorbitore (“sink”) clorofilliano di anidride carbonica  ad emettitore, questo dalle ultime misure (1998-2000) in Alaska e in Siberia (Novaja Zemlja).      La progressiva emissione di tali enormi quantità di metano (che è un gas serra 30 volte più potente della CO2 per unità di mole) in atmosfera costituisce uno dei più temuti feedbacks positivi: il riscaldamento da effetto serra produce lo scioglimento del permafrost con rilascio di metano. Quest’ultimo va ad incremetare l’effetto serra, causando una temperatura maggiore, che aumenta il tasso di scioglimento, etc.

            6) Nuovi tipi di insetti hanno cominciato a invadere le zone temperate: per esempio, a New York, una nuova ondata di zanzare  ha già fatto scattare l’allarme in quanto ha portato il virus del Nilo-ovest[63];

epidemie di febbre da West Nile virus hanno colpito la Francia meridionale[64]; in Florida le mediterranean  fruit flies hanno cominciato massivamente a danneggiare i raccolti;  a Roma la zanzara tigre (versione più piccola della zanzara che viveva abitualmente in Italia, molto aggressiva e attiva di giorno) ha infestato la città.   Il settore biologico del Working Group I è pieno di tali segnalazioni dalle zone temperate.

            7) La frequenza di siccità ed alluvioni sta aumentando.   Lo stesso dicasi per uragani e  tempeste tropicali in tutti i bacini escluso il Nord Indiano. Un trend in crescita minore ma apprezzabile si osserva anche nel Nord Atlantico.  I  3 bacini del Pacifico (NE, NW, SW) sono sempre più attivi, con i massimi trend. Il trend di crescita media mondiale della frequenza è di 0.9 uragani all’anno in più ogni anno[65].   Anche i tornado nel territorio degli Stati Uniti – la cui frequenza è ben misurata dal 1952 – hanno una frequenza in crescita: il  trend è di circa 13 tornado all’anno in più ogni anno[66].    Anche la frequenza delle perturbazioni nelle zone temperate è in aumento, come rivela un data set relativo alle acque alte a Venezia[67].

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Figura 9  L’andamento dell’anomalia della temperatura media globale nel passato millennio. I dati relativi all’ultimo secolo mostrano un considerevole riscaldamento, di circa 0.7 – 1 °C.  Le oscillazioni – in tale periodo di crescita – sono dello stesso ordine di quelle registratesi nel resto del millennio, e corrispondono ad eigenfrequencies atmosferiche. Il presente trend in crescita risulta ben evidente, ed ha portato la temperatura a valori mai raggiunti in tutto il millennio.  Al contrario, nei precedenti 9 secoli era presente un lento trend negativo – i.e. nel periodo preindustriale, prima della massiccia emissione umana dei gas serra in atmosfera, questa era stabile, o – se mai –  in costante e lento raffreddamento, con un calo di circa 0.2 °C in circa 900 anni.  Da confrontare con la fig. 4 dell’art. A. Di Fazio in “Imbrogli di guerra”, che mostra il corrispondente andamento della CO2 nello stesso periodo.

            8) Sono state recentemente pubblicate le misure di temperatura dell’ultimo millennio, dopo un lungo lavoro sulle diverse misure in centinaia di siti in tutto il modo sui sedimenti di carbonati (vedi fig. 9), sugli anelli nelle cortecce degli alberi, sul rapporto tra gli isotopi 18 e 16 dell’ossigeno, etc., rivelando che l’attuale fase di riscaldamento – il “global warming” – ha portato ad una temperatura record rispetto al millennio passato (vedi fig. 9). Analizzando i dati, si vede una sostanziale stabilità della temperatura, con un lieve trend a scendere, dall’anno 1000 fino a poco prima del 1900. Poi è ben visibile un rapido trend a salire (l’attuale global warming).  Il data set appena pubblicato, permettendo di ricostruire bene l’attuale trend di riscaldamento, ha confermato che quest’ultimo è più veloce di quanto di stimava precedentemente.

            9) Una messe di nuovi dati (sia fisici, dalle decine di migliaia di stazioni di misura sparse in tutto il mondo, che biologici, sugli spostamenti di moltissime specie in latitudine) confermano che il tasso di riscaldamento è nettamente superiore a quanto era stato calcolato fino a 3 anni fa.

                10) La scoperta recentissima – al polo Nord – di una zona di circa 2 chilometri di diametro in cui il ghiaccio è completamente sciolto, annunciata da James McCarthy della Harvard University, co-chair del working group II dell’IPCC, ha sollevato enorme scalpore, in quanto nessuno specialista aveva finora previsto  una tale accelerazione del processo di scioglimento della Calotta Polare Artica.  La scoperta va ad appesantire l’evidenza di una accelerazione dei processi di global warming ai poli, dopo i numerosi “iceberg-isola” (alcuni di dimensioni 100-200 Km x 80-100 Km!) staccatisi sempre più frequentemente dall’Antartide.

            11) È stato recentemente (fine 1999) riconfermato quantitativamente che l’effetto serra in atto accumula energia interna in eccesso nella troposfera, alzandone la temperatura, mentre la stratosfera diventa invece più fredda.  Questa caratteristica, purtroppo, interagisce con la crisi dell’ozono stratosferico, rafforzandola, in quanto i processi chimico-fisici (causati dalla presenza in atmosfera dei CFC[68]) che distruggono l’ozono tramite la formazione di ClO[69] accelerano all’abbassarsi della temperatura. Essendo la concentrazione dei CFC in salita – nonostante l’entrata in forza del Protocollo di Montreal[70], a causa del tasso di emissione dovuto alla rottamazione della vecchia tecnologia a base di CFC – questo crea notevole preoccupazione, in quanto per esempio da circa un anno il buco nello strato di ozono è comparso anche nell’emisfero boreale.  Tutti gli alons, i CFC e gli HFC[71] sono potenti gas di serra.

12)  Il climate change sin qui verificatosi ha già messo in allarme rosso la potente industria delle riassicurazioni[72].  Infatti, gli eventi meteorologici estremi (alluvioni, siccità, uragani e tempeste tropicali, tornado, etc.) stanno aumentando esponenzialmente, causando quindi un’altrettanto rapido aumento delle polizze pagate dalle riassicurazioni. È facile – e preoccupante – per queste ultime calcolare, al trend attuale, quando faranno fallimento, se non smetteranno prima di accettare polizze sui danni agricoli, civili e industriali da eventi estremi.   L’industria riassicurativa, di conseguenza, già dalla fine degli anni ‘80 ha lanciato allarmi sulle perdite economiche da essa registrate a causa degli eventi meteorologici estremi. Negli anni ’80 2 miliardi di dollari l’anno venivano pagati per alluvioni, siccità e tempeste intense. Nella maggior parte degli anni ’90, i danni pagati dalle riassicurazioni hanno ecceduto i 12 miliardi di dollari. Nel solo 1998, le perdite – ammontate a ben 89 miliardi di dollari – hanno sorpassato il totale di tutti gli anni ’80. Il capo esecutivo della Reinsurance Association of America ha fatto notare che se il clima continuerà sul trend attuale, l’intera industria delle riassicurazioni farà bancarotta a meno che smetta totalmente di fare polizze in questo campo. Il governo degli Stati Uniti è già costretto ad intervenire ogni anno (per i danni agricoli dovuti a tornado ed uragani) a coprire l’assenza di polizze assicurative in settori di crescente importanza. 

4. La deforestazione

            Il lettore ha potuto valutare - nella sezione sulla crisi climatica che a tante altre crisi è agganciata - il ruolo chiave delle foreste - e in particolare quelle tropicali - nell’assorbire e sequestrare l’anidride carbonica.   Quantitativamente, quasi i ¾ delle emissioni industriali di CO2 vengono complessivamente assorbite da foreste ed oceani, e circa la metà di questa frazione – dunque poco meno del 40% - dalle foreste. In  aggiunta a ciò, nelle foreste vive più della metà della riserva di biodiversità del pianeta. Il ruolo di scambiatori di umidità conferisce inoltre alle foreste un’importanza di valenza agricola, in quanto anche il regime di precipitazioni è influenzato dalle grandi foreste per notevoli estensioni attorno ad esse.

            Purtroppo, i dati non sono confortanti.   Oltre ad essere minacciate dalla crisi climatica (v. sezione relativa) tanto che si può calcolare approssimativamente il tempo in capo al quale il riscaldamento intaccherà il grosso delle foreste tropicali, queste stanno essendo eliminate - ad un tasso esponenzialmente crescente - dall’uomo.  I dati indicano che – al tasso di deforestazione attuale – le foreste tropicali saranno praticamente ridotte a zero tra 35 anni. Questa è una estrapolazione lineare: se invece la deforestazione procederà all’attuale trend esponenziale, le foreste saranno praticamente azzerate tra meno di 25 anni. Infatti, ancor prima di essere usate come sorgenti di legno e carta, le foreste vengono rase al suolo con tecniche slash and burn[73] per motivi agricoli ed economici in diversi PVS[74]. Prima di tutto, senza opportune politiche e tecnologie agricole si rende necessario sempre più terreno da coltivare, specie in presenza della attuale crescita della popolazione. Ma attenzione: dette “politiche e tecnologie agricole” sono tutte dipendenti dal petrolio per il 90-95%. Quindi, all’approssimarsi della crisi energetica, anche le opzioni delle moderne tecnologie agricole svaniranno del tutto. Secondo, l’erosione dei territori arabili da supersfruttamento agricolo - dove le necessarie tecnologie sono disponibili - richiede il reperimento di sempre più territori arabili, per la progressiva riduzione e scomparsa dell’humus. Terzo, le tecniche di piantagione intensiva di nuovi alberi da frutto richiedono di bruciare periodicamente diverse zone, ma l’effetto serra in atto – con lunghi periodi di siccità – manda spesso questi incendi fuori controllo, con conseguenti incendi addirittura sulla scala regionale (vedi Borneo, Siberia, Amazzoni, Florida, Canada) e che durano anche molti mesi o addirittura più di un anno (per es. nel caso del Borneo).   Il lettore tenga a mente i legami della deforestazione con le quattro altre crisi globali menzionate (la crisi energetica, l’erosione dei territori arabili, la crisi climatica e la perdita della biodiversità).   Si rifletta anche sull’impressionante sincronia di tali crisi, con i relativi tempi scala tutti nel range di 20-30 anni, eccetto il caso della crisi energetica – 10 anni circa – che quindi precede le altre, per poi permanere contemporaneamente ad esse.

            Esiste una Convenzione sulla deforestazione, ma non è ancora partito il necessario processo negoziale, con relativo organo decisionale.   Ciò è dovuto soprattutto al fatto che la deforestazione applicata da diversi PVS (v. per es. il Brasile) è a tutti gli effetti una fonte di prodotto nazionale lordo. Per questo motivo, se i paesi industrializzati vogliono negoziare sulla deforestazione, devono essere disposti a pagare l’ammanco di PIL che si creerebbe nel fermare la deforestazione, o a compensare l’equivalente somma annullando i debiti esteri dei PVS, oppure fornendo tecnologia per generare energia pulita, etc.    Per ora, nulla di tutto questo appare nelle intenzioni dei paesi del Nord del mondo.  Per questo motivo, niente negoziati sostanziali. La situazione è critica.

5. La crisi idrica

Lo scarseggiamento delle riserve acquifere già discusso nella sezione climatica del mio articolo dello scorso anno[75] costituisce soltanto una piccola parte del problema. Infatti, le principali cause della crisi idrica sono - anche qui – le stesse che stanno causando la maggior parte delle altre crisi globali.    1) La crescita economica, con il crescente fabbisogno d’acqua dell’industria e delle metropoli, dove sono in continuo aumento il consumo pro capite d’acqua.    2) L’industrializzazione agricola, che ha trasformato l’agricoltura  – nei paesi ricchi – in un processo di incrementazione del PIL[76]. Infatti, la crescita economica richiede l’investimento di crescenti capitali in agricoltura, determinando un regime agricolo sempre più staccato dal reale fabbisogno alimentare, sempre più industriale e orientato all’esportazione, con conseguente fabbisogno idrico crescente.  3) La produzione di energia, che in molti processi ha bisogno di giganteschi – e crescenti – flussi d’acqua.  4) Infine, la crescita demografica, che – prevalentemente nei paesi poveri – moltiplica ancora una volta il fabbisogno agricolo d’acqua, per sostenere stavolta il crescente fabbisogno di alimenti.

            Non esiste attualmente alcuna Convenzione specifica nè un processo negoziale per arrivare ad un Trattato con relativa legislazione idrica, con le modalità e i flussi di utilizzo.

            Nella sua relazione del 1998, il Segretario Generale UN, Sig. Kofi Annan ha lanciato l’allarme sulla crisi idrica in atto e sulle sue dimensioni in crescita.   Il direttore esecutivo dell’UNEP, il tedesco K. Toepfer, prevede che il secolo su cui ci stiamo affacciando sarà segnato da guerre e conflitti per il controllo e l’utilizzo dei flussi d’acqua.

            Va qui ricordato – come esempio – il dato del Fiume Giallo, che nel 1998 ha subito così massiccio prelievo a monte della foce per motivi industriali, agricoli, e per il fabbisogno idrico delle metropoli cinesi, che per circa 220 giorni su 365 il flusso a mare era praticamente nullo.

            Anche i conflitti futuri sull’acqua saranno dunque connessi al problema della produzione agricola, industriale e dell’energia, visto che le principali motivazioni di consumo idrico sono quelle della siderurgia, dell’irrigazione, dell’industria chimica, dell’industria petrolifera (estrazione)  e dei circuiti di raffreddamento delle centrali a carbone.

6. La crisi demografica

            La crescita della popolazione, come correttamente calcolato dal MIT per il Club di Roma nel 1971 e riconfermato nei calcoli del 1991 (vedi figura 5 più sopra), è uno dei due esponenziali responsabili delle crisi e del collasso del sistema mondiale in cui viviamo. Abbiamo passato da poco il livello dei 6 miliardi di persone.  Secondo un recente studio del World Watch Institute di Washington, se gli attuali abitanti del pianeta dovessero vivere allo standard degli Stati Uniti, dovremmo avere altri tre pianeti come il nostro, per poter fornire terre arabili, energia, cibo e materie prime a sufficienza. Siamo ad un’altra dimostrazione dell’insostenibilità dell’attuale regime economico dominante. La crescita della popolazione fa da micidiale forza propulsiva per la crisi idrica, per la crisi agricola, per l’erosione dei territori arabili, per la desertificazione. Anche la crisi energetica, principalmente causata dalla crescita economica esponenziale fin qui avvenuta, è però notevolmente esacerbata dall’aumento incontrollato della popolazione. Il pianeta, le cui terre arabili sono in erosione o addirittura soggette a invasione desertica, non può alimentare più di circa 7-8 miliardi di persone, secondo le stime più ottimistiche (vedi sezione 9 e figura 9). Invece, secondo ogni valutazione, senza interventi da parte dei paesi industrializzati di consistente aiuto alimentare, tecnologico, di istruzione, ed economico ai PVS, in particolare all’Africa, all’India e al resto del S-E asiatico, la popolazione continuerà a crescere, fino a piccare intorno agli 8-10 miliardi di individui. Tale picco sarà purtroppo seguito da un forte collasso.  Il modello “standard” del MIT (v. figura 5) prevedeva il picco a circa 8-8.5[77] miliardi di individui, verso il 2030-2035, dopo il collasso del prodotto industriale (picco nel 2020) e del prodotto agricolo (2020-2030).  I demografi delle Nazioni Unite prevedono un picco tra 8 e 10 miliardi intorno al 2040.

            Molti analisti sostengono che la popolazione è una “variabile secondaria”, nel senso che la crescita industriale, associata tra l’altro con la crescita delle differenze di distribuzione, in presenza di un pianeta non infinito, e cioè con risorse finite, è la vera causa - o per lo meno il vero motore - della crescita demografica, per via della povertà e dell’ignoranza indotte dal fatto che il residuo vitale per i PVS si restringe sempre di più e sempre più velocemente. Non bisogna dimenticare, infatti, che una delle condizioni fondamentali per la crescita economica continua è il reperimento di manodopera a prezzo sempre decrescente, cosa permessa dalla contemporaneamente crescente sperequazione nella distribuzione economica. Detto in altre parole, il totale WIP cresce, ma crescono contemporaneamente – e come condizione necessaria – le già abissali differenze tra ricchi e poveri.

            Non ci sono convenzioni, trattati, o negoziati di sorta sulla popolazione, ma solo periodici summit – peraltro del tutto inconcludenti.  Forse dei negoziati potranno essere imposti dai futuri sviluppi delle trattative sulla crisi climatica, se,  come sembra, si dovrà passare ad uno schema di convergenza ad uno share uguale pro capite di energia per annum. Infatti, quest’ultima circostanza imporrebbe contestuali negoziati sull’arresto della crescita demografica, per evitare che alcuni paesi possano tentare di ottenere più share di energia semplicemente aumentando la propria popolazione.

7.     La desertificazione

            A causa della concomitanza di diversi fattori, come la crisi climatica, la crisi idrica (di natura industriale-metropolitana), la indisponibilità delle migliori tecnologie ormai monopolio di multinazionali come la Monsanto Industries, la tendenza ad abbandonare le zone rurali per convergere nelle metropoli, ed altri motivi, il deserto sta guadagnando sempre più terreno. Più del 30% dei territori arabili esistenti 100 anni fa è stato conquistato dal deserto. La desertificazione risulta dal degrado delle terre aride. Riguarda la perdita della produttività e complessità biologica ed economica nelle terre da coltivazione, da pascolo, e nelle aree forestali. La desertificazione è spesso sostenuta e/o accelerata da attività umane insostenibili, le più comuni delle quali sono  la eccessiva coltivazione, sovrappascolo, la deforestazione, cattive pratiche di irrigazione. Escludendo i deserti, ben 70% delle terre aride del mondo – equivalenti a 36 milioni di chilometri quadrati – è degradato.  Più di 250 milioni di persone sono direttamente colpite dalla desertificazione. Inoltre, più di un miliardo di persone – distribuite in più di  cento paesi – sono a rischio imminente di desertificazione. Queste persone costituiscono gran parte della popolazione più povera del mondo, sono i cittadini più marginalizzati e politicamente più deboli.

            La desertificazione non riguarda soltanto i PVS: studi della NASA, del GFDL del NOAA, e dell’UKMO prevedono per gli Stati Uniti una progressiva desertificazione di vaste praterie del Mid-West e del Sud del paese, includendo gran parte della California e persino parti della Florida.   Un analogo studio condotto da una collaborazione - tuttora in corso - tra la NASA, Columbia University, e il nostro Ministero dell’Ambiente mostra che gran parte del Centro, del Sud e delle Isole italiane tende alla desertificazione, con un tempo scala – determinato dal  dimezzamento dell’apporto idrico – intorno ai 25-40 anni.   Lo stesso vale per quasi tutto il Sud europeo, ossia  per i paesi Mediterranei (metà della Spagna, la Grecia, La Turchia).

            La Convenzione contro la Desertificazione (CCD[78]) è stata firmata a Roma nell’ottobre del 1997, ed è in fase di ratifica.  Ancora non sono in atto trattati con forza di legge tipo quello di Kyoto sul clima, e le negoziazioni sono ferme alle procedure.  Anche nella CCD gli schieramenti sono gli stessi: G77&China, USA con i paesi del JUSCANNZ  e EU, che anche qui si distingue notevolmente dagli USA.            Gli unici interventi concreti - anche se con mezzi drammaticamente inadeguati - sono quelli della FAO e dell’IFAD, e consistono in aiuti alimentari e in tecniche agricole[79].  Ultimamente si è messo in atto il progetto di creare oasi ai margini dei deserti, finanziato dall’IFAD[80], ma che ha finora mostrato scarsi successi, come descritto dalla dirigente IFAD  Dr. M. Fikri, spesso per mancanza di fondi e/o di sufficienti flussi d’acqua.   Teniamo infine conto del fatto che tutte le tecniche di contenimento dei deserti sono dipendenti dal petrolio per oltre il 95%. Questo proietta una minaccia terribile, in interazione con l’imminente crisi petrolifera.

8.     La perdita della biodiversità

Il termine “diversità biologica” è comunemente usato per descrivere il numero e la varietà di orgamismi viventi sul nostro pianeta. È definito in termini di geni, specie ed ecosistemi che sono il risultato di più di 3 miliardi di anni di evoluzione. La specie umana, come le altre, dipende dalla biodiversità per la sua sopravvivenza. Quindi diversità biologica può essere considerato un sinonimo di “vita sulla Terra”. Fino ad oggi 1.7 milioni di specie sono state identificate. Il numero esatto delle specie esistenti non è conosciuto, e le stime variano da 5 a diverse decine di milioni. Chi non conosce il problema a fondo può chiedersi: perchè difendere la diversità biologica è di massima priorità?  L’estinzione delle specie è parte naturale del processo evolutivo, ma – a causa delle attività umane – le specie e gli ecosistemi sono minacciate oggi più che mai nella storia a noi nota. Le perdite di biodiversità stanno avvenendo nelle foreste tropicali (dove vivono dal 50 al 90% delle specie identificate) così come nei fiumi, nei laghi, nei deserti e nelle foreste temperate, sulle montagne e sulle isole. Le stime più recenti prevedono che – agli attuali tassi di deforestazione – dal 2% all’8% delle specie nelle foreste tropicali spariranno entro i prossimi 20-25 anni.  A parte il fatto che queste estinzioni sono una tragedia ambientale,  esse hanno profonde implicazioni per lo sviluppo economico e sociale. Almeno il 40% dell’economia mondiale e l’80% dei fabbisogni dei poveri sono derivati dalle risorse biologiche. Inoltre, le opportunità per le scoperte bio-mediche, per lo sviluppo economico e per le risposte di adattamento alla crisi climatica sono una funzione crescente della biodiversità.  La varietà delle forme di vita è la nostra polizza di assicurazione come specie umana. Le nostre stesse vite dipendono da essa. 

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Figura 10   La produzione di cereali nel mondo, pro capite in kilogrammi/persona/anno e totale in milioni di tonnellate/anno.
Esiste una Convenzione sulla Biodiversità[81], con la sua COP, che si è appena riunita per stabilire i meccanismi di intervento. Ma di trattati con forza di legge per ora non si parla.

            La crisi in questione dipende principalmente da 4 fattori:  1) la riduzione del manto forestale (v. deforestazione); 2) l’uso sempre più massiccio di pesticidi, e gli scarichi industriali tossici nei fiumi e nel mare;  3) l’effetto serra, con la distruzione di habitat necessari a molte specie, dovuto al riscaldamento e ai suoi effetti collaterali, come la distruzione di moltissimi tipi di catene alimentari; 4) la desertificazione

            Esiste un problema di diversificazione genetica, con conseguenze anche remote dalle zone in cui avviene.

9. La crisi agricola e l’erosione delle terre arabili

La necessità di avere sempre più prodotto agricolo per unità di superficie coltivata - dovuta insieme alla crescita demografica e alla desertificazione progressiva di terre precedentemente fertili - ha imposto l’uso di colture e pratiche sempre più intensive, e di prodotti che accelerino ed ottimizzino la crescita, aumentando enormemente il prelievo dei sali minerali dal terreno. Ciò sta depauperando sempre più i terreni agricoli, con il risultato di ridurre sempre più lo strato di humus e di terra utilizzabile (erosione).     Inoltre, la coltivazione intensiva, per ragioni di rendimento (e di capitalizzazione nell’industrializzazione dell’agricoltura), sta facendo sempre più uso di pesticidi, e sempre più forti, per il fenomeno della comparsa di specie di parassiti sempre più resistenti. L’uso di pesticidi in quantità crescente è responsabile anche - anche se in maniera minore - della progressiva erosione del terreno arabile.  Un ulteriore micidiale effetto dell’uso intensivo dei pesticidi contribuisce anche alla perdita della biodiversità.               Il dato più preoccupante, però, è il grado di dipendenza dell’agricoltura dai combustibili fossili. Infatti, calcolando il combustibile per le pompe, per le macchine per arare e fare il raccolto, per il primo trattamento e per il trasporto, ad ogni joule di emergia[82] (emjoule) corrispondono da 10 a 20 joule di energia in combustibili fossili usati (benzina, nafta, etc.).   Questo significa che spendendo 100 calorie in combustibili fossili si ottiene solo dal 5% al 10% di potere nutritivo, e questa percentuale scende sempre di più. Questo nasconde un problema formidabile in agguato: la dipendenza fortissima della nostra capacità di produrre alimenti dalle crisi climatica e petrolifera. Guardiamo la figura 10[83]: La produzione totale di cereali è in crescita, ma cresce sempre più lentamente[84], nonostante la quasi totale sussidiarizzazione petrolifera dell’agricoltura. La produzione pro capite è già in visibile lenta flessione, a causa della crescita demografica, della quale la crescita del prodotto agricolo non riesce a tenere il passo. Sapendo dunque che dal 90% al 95% del contenuto in carboidrati del raccolto dipende dall’uso di combustibili fossili per l’agricoltura, si capisce bene come si modificheranno i trends (totale e pro capite) al sopraggiungere della crisi energetica: praticamente avremo quasi una riduzione proporzionale alla riduzione di produzione di petrolio. Ciò ovviamente è aggravato dall’erosione, poichè l’indotto bisogno di aumentare l’efficienza agricola aumenta sempre di più la dipendenza dell’agricoltura dal petrolio. Non esistono a tutt’oggi negoziati internazionali per combattere l’erosione dei terreni arabili, al di fuori dei pochi interventi per combattere i terreni già in procinto di desertificarsi.

10. Il calo progressivo delle riserve ittiche.

            Anche l’esaurimento delle “fisheries” è un grave problema, già previsto e segnalato autorevolmente quasi 30 anni fa dal Club di Roma e dal rapporto del MIT, connesso alla crescente industrializzazione ed intensificazione delle pratiche pescatorie, e all’uso di tecnologie sempre più efficienti nell’aumentare il pescato. Già dalla metà di questo secolo sono state abbandonate le pratiche “di sufficienza” dei pescatori, per adottare pratiche industriali di massa, in cui il pescato deve essere principalmente esportato in quantità massive, molto maggiori cioè del fabbisogno della popolazione limitrofa alla zona di pesca. È proprio questo – in misura molto maggiore che la crescita demografica – che ha innescato il forte calo delle riserve ittiche.  Oggi siamo giunti ad un livello drammatico: le fisheries sono diminuite del 30%–40%. E il problema aumenta, visto che stiamo pescando molto al di sopra della velocità riproduttiva dei pesci (un fattore 1.4 – 1.5).

                Non si è ancora arrivati a negoziati globali, come servirebbe, mentre ci sono una serie di accordi regionali. Per esempio, l’Unione Europea ha recente imposto il fermo-pesca di Sabato e di Domenica, oltre che per un mese l’anno.   Ma la misura è risultata essere largamente insufficiente, in quanto i trends in calo  non hanno accennato a variazioni apprezzabili.

11. Le negoziazioni e le risposte

       - lo scontro sul protocollo di Kyoto: il commercio di “aria calda”, il calcolo delle

                     emissioni  “nette”, il “prestito” dalle allocazioni future e altri imbrogli…

Nel mio articolo su “Imbrogli di guerra” avevo accennato all’introduzione – nel protocollo di Kyoto per la riduzione delle emissioni dei paesi industrializzati – di clausole atte ad eludere le riduzioni stesse, come il commercio dei cosiddetti diritti di inquinare (“aria calda”) e il calcolo delle emissioni nette dall’assorbimento dei sinks forestali. Si ricorda che ogni paese poteva andare – sull’orizzonte temporale del 2012 previsto dal trattato – al proprio livello di emissioni assegnato sia mediante riduzioni effettive, sia mediante l’acquisto delle allocazioni di emissioni di gas serra[85] da paesi scarsamente inquinatori-emettitori e che quindi si verrebbero a trovare comunque sotto la soglia loro assegnata. Altra scappatoia anch’essa già nel testo del Trattato di Kyoto, è quella di calcolare le proprie emissioni “nette” – ossia sottraendo prima la quantità assorbita dalle foreste del proprio territorio. Ovviamente ciò è molto pericoloso, in quanto un semplice incendio di grosse proporzioni libererebbe in atmosfera immediatamente tutta la CO2 precedentemente assorbita. Inutilie dire che gli USA e il Giappone vogliono acquistare da Russia ed Ukraina quote di permessi di emissione non solo sufficienti a non ridurre nulla in casa propria, ma addirittura tali da permettere loro di continuare a crescere le proprie emissioni.  L’Unione Europea ha posto sul tavolo negoziale la condizione che il commercio di aria calda sia limitato al massimo al 50% delle allocazioni di ciascun paese.  Pe tutta risposta, gli Stati Uniti e il JUSCANNZ[86] hanno proposto di introdurre addirittura la possibilità di chiedere prestiti dalle proprie allocazioni future di emissione!     Dopo tale proposta statunitense, l’Unione Europea ha accusato gli Stati Uniti di voler far saltare i negoziati, visto che l’applicazione di tale clausola lascierebbe la sola Europa a fare reali riduzioni di emissioni di gas serra. Visto che ciò comporta la riduzione di prodotto industriale, il tutto equivarrebbe ad una vera e propria guerra commerciale non dichiarata!  Il gruppo del G77&China ha fatto propria la richiesta dei paesi OPEC (tutti membri del G77) di ottenere un pagamento in cambio della frazione di riduzione di emissioni dei paesi industrializzati che causerà una minor vendita di petrolio e gas naturale. La richiesta è appoggiata dall’argomentazione che anche i PVS che praticano la deforestazione hanno richiesto risarcimenti in cambio della riduzione e poi della sospensione delle attività di deforestazione, in quanto queste sono per loro una grande parte del  loro PIL.  Il G77&China ha anche nominato, come suo presidente di turno, il Segretario Generale dell’OPEC, il ministro Nigeriano Rilwanu Lukman.  Vista anche la situazione critica per la crisi petrolifera, e visto il ruolo dell’OPEC in essa, ambedue le mosse del G77 hanno avuto l’evidente effetto di inviare un preciso avvertimento ai paesi industrializzati e in particolare agli USA. Vista la posizione rigida di questi ultimi, orientati – in pratica – sul non ridurre le emissioni per niente, la richiesta del G77&China vede allontanarsi ancor più un accordo negoziale al Summit Mondiale sul Clima dell’Aja[87]. Le elezioni americane – come prevedibile – stanno anch’esse contribuendo a diminuire le pur piccole probabilità di successo a COP6. I due candidati, infatti, si guardano bene persino dal menzionare la crisi climatica, figuriamoci dal discutere in pubblico la quantità di riduzioni di gas serra che saranno disposti a promuovere. Forse Gore ha persino dimenticato di aver scritto un libro sulle minacce proiettate dalla crisi climatica.  

            A questo punto bisogna dire chiaramente che all’Aja si rischia non solo il fallimento del Trattato di Kyoto – cioè del primo tentativo di riduzione delle emissioni serra dei paesi industrializzati – ma anche la rottura della Convenzione sul Clima (la UNFCCC[88]).  Questa infatti stabilisce che, visto che i paesi industrializzati[89]  –  dai dati degli ultimi 140-150 anni – sono responsabili finora di più del 98% della CO2 fin qui aggiunta a quella naturale preindustriale, e visto inoltre che proprio tramite tali emissioni hanno prodotto la crescita di produzione e consumo di energia che ha permesso la loro crescita economica sin qui avvenuta, essi devono farsi carico – e sopportarne il maggior peso – per primi delle necessarie misure per evitare “cambiamenti pericolosi nel sistema climatico” (Artt. 2, 3.1 e 4.2(b)[90]). Però – fa notare il G77&China, e in particolare la Cina, l’India, il Gruppo dell’Africa e il Brasile – finora i paesi industrializzati non solo non sono riusciti a – o non hanno voluto – ridurre neanche di poco le loro emissioni di gas serra, ma le hanno sistematicamente aumentate (Stati Uniti e Giappone in testa). L’Unione Europea ha preso una posizione obbiettivamente difficile e coraggiosa, accettando di apportare correzioni anche rilevanti (dal –25% della Germania, al – 20% della Gran Bretagna, al – 40% promesso dalla Danimarca, e in totale – 8%) ma l’azione fin qui portata avanti dagli Stati Uniti e da tutto il JUSCANNZ ha fatto di tutto per far sì che rimanesse solo l’UE a fare riduzioni (anzi, per ora a prometterle). Per questo, i paesi del G77&China, che rappresentano circa 5 miliardi di persone, minacciano di abbandonare tutto, se i paesi industrializzati continueranno a non rispettare i loro impegni e  a richiedere contemporaneamente una riduzione di emissioni ai PVS, che invece devono aumentarle fino a raggiungere un minimo sostenibile.  Di converso, gli USA minacciano di far saltare tutte le negoziazioni se verà approvata la proposta dell’Unione Europea di limitare al massimo al 50% (delle allocazioni di emissione nazionali) la possibilità di commercio di “aria calda”.  Il G77&China – ma anche l’Unione Europea – avversano la possibilità di scaricare totalmente le proprie riduzioni di emissione aumentando i sinks forestali.

 

-         Text Box:  Figura 11  Lo schema “Contraction and Convergence”, del Global Commons Institute di Londra. Fino al 2000 sono riportate le emissioni storiche (in miliardi di tonnellate di carbonio-equivalenti l’anno), mentre dopo sono graficate le allocazioni per paese – o gruppi di paesi – assegnate per ridurre la concentrazione di CO2 a 350 ppmv, con una riduzione totale dell’80% circa sull’orizzonte temporale del 2100 (da prescrizione scientifica IPCC).  Dal 2000 al 2030 – in questa versione – avviene, contemporaneamente alla contrazione del totale delle emissioni, una convergenza ad un comune livello pro capite. Infatti, notare la riduzione molto veloce dell’allocazione degli Stati Uniti, del resto dell’OCSE(OECD), e dei paesi dell’ex-Patto di Varsavia (indicati come parte non-OCSE dei paesi Annex 1). In tale periodo di convergenza, i PVS crescono nonostante il totale scenda (redistribuzione delle quote di emissione e di conseguenza di energia). 
 
Figura 12  Le allocazioni di emissioni pro capite (in tonnellate di carbonio-equivalenti all’anno a persona) sotto lo schema di “Contraction and Convergence”. In questa versione (v. figura 10)  l’uguaglianza delle quote pro capite si raggiunge nel 2030.  Notare la lenta crescita dei PVS (Cina, India e “resto del mondo”) e la rapida decrescita dei paesi industrializzati.

Contraction and convergence

L’unica proposta complessiva attualmente sul tavolo negoziale è lo schema “Contraction and Convergence” (CC), del gruppo londinese Global Commons Institute[91] (GCI, vedi fig. 11).  Tale proposta – che è anche l’unica che abbia posto in pratica lo spirito e la lettera della Convenzione Climatica – all’interno della contrazione delle emissioni totali mondiali fa avvenire una crescita limitata delle emissioni dei PVS, fino ad arrivare ad un regime di uguaglianza delle emissioni pro capite (v. fig. 12). Solo in questo quadro, hanno avvertito l’India e il Gruppo dell’Africa, i PVS potranno accettare un trattato sul clima, che quindi limiti la crescita delle loro emissioni[92]. Questo ovviamente costerà riduzioni molto più drastiche per i paesi che hanno ora le emissioni pro capite più alte, ma è l’unico modo di portere i PVS al controllo delle emissioni. Nella fase della convergenza, in cui i paesi industrializzati contrarrebbero ad un tasso molto superiore alla contrazione totale (v. fig. 11 e 12) tali paesi potrebbero avvalersi della possibilità di comprare una parte delle allocazioni di emissione dai PVS, trasferendo quindi – in cambio –  ingenti quantità di fondi e tecnologia verso i PVS stessi. La Cina ha ufficiosamente mostrato di essere pronta ad accettare lo schema CC, anche se ufficialmente non avanza proposte, in attesa di vedere se i paesi industrializzati metteranno in pratica o meno i loro impegni di riduzione – sia quelli previsti dalla Convenzione Climatica (la UNFCCC) sia quelli sottoscritti nel Trattato di Kyoto. Al momento attuale, nelle negoziazioni ufficiali non è in agenda una limitazione delle emissioni dei PVS, ma solo – per ora – la riduzione di quelle dei paesi industrializzati, sia perchè sono predominanti, sia perchè rimane pendente il “debito storico”. Tale termine descrive il fatto – riconosciuto nella UNFCCC – che i paesi ricchi sono responsabili del 98% circa delle emissioni cumulative (la somma delle emissioni fino al momento attuale) e quindi del 98% dell’eccedenza di CO2 in atmosfera rispetto alle concentrazioni naturali. I paesi ricchi hanno dunque costruito la loro rapida e dominante crescita economica causando la attuale crisi climatica. Non solo, ma sempre tramite la crescita i paesi industrializzati hanno innescato anche la crisi energetica, rendendo così materialmente impossibile altrettanta crescita per i PVS.  Anche l’Unione Europea, pur non avendo preso posizione ufficiale sulla distribuzione delle riduzioni e limitazioni di emissioni a livello mondiale, ha accettato – per ora al proprio interno, cioe solo per i paesi menbri UE – lo schema CC del GCI. Infatti, la UE ha accettato a Kyoto una contrazione totale dell’8% rispetto al 1990 entro il 2012, ma all’interno di questa contrazione trova anche spazio la crescita del 30% del Portogallo e del 40% dell’Irlanda, mentre la Germania dovrà ridurre del 25%, la Gran Bretagna del 20%,  l’Italia solo del 6%, etc.  Gli Stati Uniti vedono lo schema CC come il fumo negli occhi, ma – ormai da Kyoto, quando furono costretti ad ammetterlo dai delegati di Cina, India e Gruppo Africano – tuttora non hanno una proposta alternativa.

Text Box:  
Figura 13   L’aumento dell’efficienza economica (in dollari 1968 per tonnellata di CO2)  da dati della Banca Mondiale e del CDIAC (Carbon Dioxide Information and Analysis Center). L’efficienza economica è in realtà semplicemente proporzionale al rendimento termodinamico delle macchine che trasformano energia chimica in lavoro. Oggi tale rendimento è ormai solo un fattore 2 minore del massimo limite raggiungibile per il Secondo Principio della Termodinamica.

            Nel processo negoziale, la Banca Mondiale (WB) e il Fondo Monetario Internazionale (IMF) – i due organismi economici delle Nazioni Unite – fanno il possibile per promuovere le cosiddette misure “no regret” (ossia di cui “non ci si rammarica”) intendendo tutte le misure che non tocchino minimamente la Crescita Economica e il Mercato, pretendendo di ridurre le emissioni di anidride carbonica soltanto attraverso le cosiddette politiche di “efficiency gain”.  Queste ultime consistono nell’aumento dell’efficienza con cui si ottiene un dato lavoro a parità di energia usata, ossia di combustibili fossili bruciati.  A prima vista – e rimanendo soltanto nell’ambito di un’analisi economica, senza cioè ricorrere alla fisica – l’intento dell Banca e del Fondo sembrerebbe sensato.   E invece no! Il tentativo di salvare la crescita e il clima, riducendo le emissioni tramite il solo aumento dell’efficienza si è rivelato ben peggio del classico tentativo di “salvare capra e cavoli”:  WB e IMF, con i loro economisti e con tutti i governi dei paesi industrializzati che seguono i loro consigli, sono impegnati in una battaglia impossibile e persa in partenza.  Infatti, sappiamo che la  relazione tra l’efficienza economica, e, il prodotto industriale mondiale WIP e le emissioni, E,   è:      E = WIP/e.  Dunque, gli economisti della Banca e dell’IMF pretendono che la crescita economica continui per sempre inalterata, e cioè vogliono assolutamente che il numeratore della nostra espressione per le emissioni aumenti sempre, e in maniera esponenziale come nei passati 140-150 anni (con un tempo di raddoppio di 17-18 anni). Pretendendo ciò, l’unica maniera di far scendere le emissioni è di fare aumentare il denominatore di quella espressione, cioè l’efficienza economica (in $/tonnellata di CO2) in maniera ancora più rapida del prodotto industriale mondiale , WIP. Ossia anche l’efficienza deve tendere a crescere per sempre, e in maniera esponenziale addirittura più rapida della crescita economica – e tutto ciò per realizzare il sogno degli economisti (e di ogni capitalista, pardon, “operatore di mercato”) di fermare la distruttiva crisi climatica senza rinunciare alla crescita e quindi all’attuale sistema di mercato.   Parrebbe ragionevole…  Negli ultimi 140 anni, in effetti l’efficienza è andata aumentando (v. figura 13)  solo che non così velocemente come la crescita economica: il prodotto industriale cresce più veloce e di conseguenza le emissioni di CO2 e altri gas serra sono andate esse stesse aumentando esponenzialmente, innescando la crisi climatica.  Ci direbbe Wolfensohn, presidente della WB: banale! Basta far aumentare l’efficienza più rapidamente di come fatto finora, e così via per sempre.   Si può?  No[93]. l’efficienza economica altro non è che il rendimento termodinamico delle macchine che bruciano combustibili fossili, moltiplicato per semplici costanti chimico-fisiche e per costanti di conversione. Il Secondo Principio della Termodinamica ci dice che tale rendimento è limitato ad essere rigorosamente inferiore al 100%. Per le macchine reali usate nelle attività umane, questo rendimento in pratica può al più arrivare ad un valore intorno a 0.8, e questo è sfrenatamente ottimistico, visto che i sistemi di raffreddamento, gli attriti, le permeabilità al calore, etc. portano via sostanziali frazioni di energia.  Fatti i conti, l’efficienza media mondiale – dai motori a combustione interna alle efficientissime turbine a gas – può in media aumentare al massimo un fattore 2-2.5.                                                E se anche non esistesse – per assurdo – il Secondo Principio – la semplice conservazione dell’energia (non si può estrarre dal carburante più energia di quella che ha)  limiterebbe l’aumento dell’efficienza ad una massima crescita di un fattore minore di 3!   Altro che efficienza che cresce all’infinito!  Ecco quale è la battaglia impossibile degli economisti: volere che l’aumento di un fattore dell’ordine di 2-3 contrasti – anzi vinca su un aumento perenne, e per giunta esponenziale – che tende ad infinito. Ergo, i nostri economisti, la Banca, il Fondo, e tutti i governanti che li ascoltano hanno solo due strade: o pretendono comunque di continuare la crescita economica, causando una crisi climatica distruttiva, con effetto serra totalmente fuori controllo e che dunque causerà una crisi economica altrettanto distruttiva, che a sua volta fermerà la crescita con un crash, o accettano di frenare e poi fermare del tutto la crescita economica, in maniera controllata e programmata. Ovviamente – in ambedue i casi, possono dare l’addio al venerato Mercato e a tutto ciò che da esso dipende, pensiero unico incluso.

            Un altro espediente degli USA e dei loro alleati del JUSCANNZ, per indebolire al massimo le misure del protocollo di Kyoto, è stato quello di introdurre il cosiddetto CDM (Clean Development Mechanism)[94], un marchingegno legale con cui un paese ricco che non voglia o non “possa” ridurre le emissioni a casa propria può implementare e costruire tecnologia e macchinari per generare energia emettendo meno CO2 in un PVS, acquistando così il diritto di emettere in casa la differenza tra le emissioni fatte risparmiare al paese povero e la riduzione che doveva portare a termine a casa.  Praticamente, un altro modo di accrescere le proprie quote permesse di emissioni sotto il Trattato di Kyoto!  Altro scontro tra gli Stati Uniti e l’UE è causato dal fatto che gli Stati Uniti vogliono fare accettare la costruzione di impianti nucleari a fissione nei PVS come elemento di credito sotto il CDM.   E naturalmente, gli impianti nucleari in questione debbono essere costruiti allo standard di sicurezza del paese in via di sviluppo…[95] Altrettanto ovviamente, gli unici impianti nucleari che gli USA vorrebbero implementare sono nei PVS, visto che nessun paese industrializzato si sogna di farlo in casa propria…  Allo scopo, vedi il decommissioning USA delle proprie centrali, che sono programmate decrescere della metà nei prossimi 20 anni.

12. Un sistema in agonia

                - gli interventi necessari e le conseguenze per il sistema 

Il quadro generale, con i suoi dati, le sue tendenze, i suoi tempi scala, è davvero allarmante per tutti.  In presenza di una crisi demografica che sta già amplificando a dismisura diverse altre crisi (in particolare quella energetica ed agricola) l’effetto trascinante della crescita esponenziale del prodotto industriale è arrivato ad un punto critico, minacciando – già nel presente decennio – una crisi energetica distruttiva, accompagnata sicuramente da una altrettanto micidiale crisi economica e molto probabilmente da diffusi e vasti conflitti militari. La crisi climatica, anch’essa causata e pilotata dalla crescita economica esponenziale, è già in atto – per ora con effetti controllabili – ma entrerà (per ovvi motivi) in fase critica subito dopo l’inizio della crisi energetica. Siamo sicuri che la crisi climatica ci troverà nel pieno di una crisi economica sistemica, mentre non possiamo escludere che troverà il mondo anche immerso in eventi bellici dalla poco prevedibile dimensione e controllabilità.  L’insostenibilità assoluta – e a breve scadenza – dell’attuale regime e tendenza BAU è evidente, e per tutti i paesi. In alcuni settori, l’insostenibilità è addirittura maggiore per i paesi industrializzati, in particolare per gli Stati Uniti.

Gli interventi necessari per evitare la crisi energetica sono – in parte – noti  , ma essi richiedono:   

1)      una frenata di emergenza, con l’arresto immediato della crescita del consumo di energia, accompagnato dalla negoziazione della redistribuzione dell’energia e delle risorse vitali, fino a raggiungere un regime di “per capita-basis equity[96], così come si sta negoziando nel caso della crisi climatica;

2)      una susseguente rapida contrazione, volta a ridurre in maniera programmata il consumo energetico totale – raggiunto al momento dell’arresto – fino al raggiungimento di un tasso di consumo uguale o lievemente inferiore al tasso a cui si riesce a produrre energia esclusivamente da fonti rinnovabili.  La discesa del consumo di energia totale deve avvenire contemporaneamente alla crescita delle quote dei paesi in via di sviluppo, in  modo da convergere alla su descritta per capita equity.  Detta discesa sarà mitigata dall’uso di una frazione di combustibili fossili che via via sarà permessa dalle prescrizioni per mitigare l’effetto serra.  Tale frazione deve ovviamente tendere a zero sul lungo periodo, ma deve scendere sotto il 20% del valore attuale entro 20 anni[97];

3)      In corollario al punto 2), da subito i governi devono implementare ed agevolare economicamente le tecnologie di generazione di energia rinnovabile.  Contemporaneamente, un massiccio trasferimento della necessaria tecnologia deve avvenire verso i PVS, in maniera negoziata ed assistita.

4)      Il punto 1) comporta lo stop di emergenza alla crescita economica.       La realizzabilità politica del punto 1) – oltre che ovvie considerazioni militari - comporta altresì – di fattola redistribuzione economica , e quindi necessariamente un nuovo sistema economico e politico.  Affermo “necessariamente” in quanto il presente sistema “di mercato” – praticamente ovunque – è basato ed ha assoluto bisogno sia della crescita perenne che della crescente sperequazione, tra paesi e tra cittadini, ambedue insostenibili per le crisi in atto e previste.

5)      Coordinamento assoluto degli interventi di cui sopra con quelli sotto descritti per la crisi demografica, agricola, e climatica.  Altrettanto stretto coordinamento mondiale tra i governi, in una sorta di governace mondiale di emergenza.  Una globalizzazione sì, ma dagli obiettivi esattamente opposti a quelli perseguiti dall’attuale sistema “di mercato” e dal suo degno compare politico, il pensiero unico. Si tratta di una globalizzazione di emergenza per la sopravvivenza, con il conseguente smantellamento dello standard energetico, economico, politico ed etico dell’attuale sistema.  Come dovrebbe essere chiaro da tutti i dati e i trends mostrati nell’articolo, e comunque da ciò che spiegherò tra breve, a queste misure, volenti o nolenti, non c’è alternativa, se non si vogliono prendere in considerazione scenari di sopravvivenza marginale in condizioni che nessuno oggi descriverebbe come umanamente accettabili.

Tuttavia, come sappiamo, per ora non c’è traccia di tutto questo nelle azioni politico-economiche concrete dei governi, salvo nel caso delle soluzioni sul tavolo negoziale della crisi climatica, come esaminiamo in seguito.  

Gran parte degli interventi per moderare (non per “evitare”) la crisi demografica sono contenuti in quelli per frenare la crisi energetica, e in aggiunta è necessario:

1)      avviare una politica di istruzione e di programmazione familiare, accompagnata da misure generali per il controllo delle nascite;

2)      assicurare – per rendere possibile il punto precedente – un livello minimo sostenibile umanamente e accettabile di welfare statale economico e sanitario per le classi meno abbienti. Tale intervento si deve accompagnare e coordinare con quello di redistribuzione energetica e di risorse su base pro capite descritto più sopra.

3)      Prevedere controlli e sanzioni per i paesi che non osservino il piano di controllo demografico, o che – peggio – spingano la propria popolazione alla crescita per aumentare la quota loro spettante su base pro capite a livello internazionale.

Molti degli interventi necessari per moderare la crisi climatica sono contenuti in quelli rivolti a contenere e poi a risolvere la crisi energetica, in particolare la riduzione dei consumi al di sotto ai livelli di produzione dell’energia rinnovabile. In particolare consideriamo:

1) l’eliminazione dell’uso dei combustibili fossili, passando – in un primo stadio – per una riduzione temporanea al 20% del tasso attuale di consumo di petrolio, gas e carbone è assolutamente necessaria per una mitigazione della crisi climatica. Parlo della sola mitigazione, in quanto la misura descritta non eviterà la crisi climatica che consegue dall’anidride carbonica ed altri gas serra già immessi in atmosfera (per esempio, la CO2 permane per circa 200 anni).   Escludendo la fissione nucleare che è pericolosa e insostenibile economicamente, la fusione nucleare che richiede tempi di implementazione superiori ai tempi scala delle crisi in arrivo, e l’energia geotermica che va usata ma che può fornire solo frazioni trascurabili del fabbisogno energetico umano, l’unica fonte di energia inesauribile e sostenibile è quella che proviene dal Sole. L’energia dal settore idroelettrico, eolico, dalle onde e dalle maree, dal fotovoltaico e termico solare e infine dalle biomasse proviene tutta dal Sole. Per quanto piccola (35%-40%) possa essere ritenuta la frazione dell’attuale fabbisogno energetico che si può ottenere dal Sole, è con quella e soltanto con quella che possiamo e dobbiamo vivere. Ogni sistema economico-politico che preveda un altro regime energetico per l’umanità è necessariamente transiente ed insostenibile. L’attuale sistema si sta scontrando con la sua insostenibilità energetica in questo decennio, dopo che ciò era stato studiato e previsto scientificamente già 30-40 anni fa.      Contemporaneamente a quanto sopra detto, le misure per combattere la crisi climatica devono anche includere:

2) l’arresto della deforestazione, con negoziazione per risarcire i PVS (che la praticano attualmente) della perdita di fabbisogno agricolo ed economico che conseguirà all’arresto della deforestazione stessa;

3) la transizione ad un regime agricolo guidato non dal mercato e/o dall’industria, ma a misura del solo    fabbisogno alimentare, con il conseguente calo di produzione di metano (CH4, forte gas serra) da risaie e pascoli;

4) L’abbandono di pratiche industriali/intensive di coltivazione (quelle che usano massicce quantità di fertilizzanti e pesticidi, tra l’altro possibili soltanto in un’economia dominata dal petrolio[98]) che riducono l’humus con un tasso insostenibile, favorendo l’erosione,  la desertificazione e di conseguenza diminuendo la capacità del territorio di difendersi dagli estremi climatici in arrivo.

5) la riduzione a zero delle emissioni di protossido di azoto (N2O), di HFC e PFC[99].

            I punti 2), 3) e 4) sono ovviamente anche ciò che deve essere fatto per arrestare la crisi agricola, l’erosione dei territori arabili, la deforestazione e, in parte, la desertificazione.  Un regime economico non più improntato al mercato e alla crescita eserciterà necessariamente – tra l’altro – una minore pressione sulle riserve ittiche e sui territopri arabili. Lo stesso dovrebbe valere per la perdita della biodiversità.

            Attualmente, come vedremo nella prossima sezione sui negoziati, soltanto la crisi climatica è in fase di negoziazione, sebbene su interventi per ora del tutto marginali, e si negozia su argomenti procedurali e regolamentali sulla biodiversità e sulla desertificazione. Insomma, su ben poco rispetto alle misure realmente necessarie. Prima di analizzare questa situazione, è bene fare una valutazione dei tempi e dell’ordine di intervento tra crisi energetica e climatica.   Fare prima o soltanto gli interventi per la crisi climatica (rispetto a quelli necessari per contrastare la crisi energetica) non serve e non funziona.  Infatti, probabilmente, la crisi climatica – considerato tutto l’arco di tempo su cui si sviluppa – avrà effetti complessivamente più distruttivi di quella energetica. Inoltre, per doloroso e difficile economicamente/politicamente/tecnologicamente che sia, la crisi energetica può in teoria essere arrestata, mentre quella climatica può soltanto essere mitigata, contenuta. Per la crisi climatica – insomma – si può al massimo (e sarebbe già tanto) tentare di mantenerla ad un livello di distruttività non molto superiore a quello che le concentrazioni di gas serra già raggiunte in atmosfera implicano. Queste considerazioni servono a far valutare – integralmente – la crisi climatica per quello che è: la più grande minaccia ambientale che ci sovrasta. Ciononostante, la crisi energetica arriva per prima e la sua intensità sarà maggiore, in quanto colpirà in un arco di tempo più concentrato nel tempo e produrrà immediatamente una crisi economica più acuta.

            Non prendere le misure descritte, ignorarle del tutto o in parte, posporle nel tempo, etc. non sarà una soluzione di alcun tipo: l’arresto della crescita esponenziale – al tempo stesso motore e obiettivo dell’attuale sistema di mercato – avverrà lo stesso, solo che assomiglierà molto di più ad un crash che ad una frenata, sia pur di emergenza. Per continuare la metafora usata all’inizio del presente articolo, il muro verso cui siamo lanciati a tutta velocità non si sposterà da solo, e se il conducente non frena, ci si fermerà lo stesso, ma con uno schianto. Inoltre, posporre la frenata è possibile fino a un dato punto, oltre il quale lo schianto diventa inevitabile[100]. Posporre le misure per mitigare gli effetti del climate change non è già più possibile: ci siamo già dentro, e frenare più tardi potrà soltanto peggiorare gravemente la situazione. Posporre gli interventi di emergenza per la crisi energetica è ancora meno possibile.          

            Siccome però non siamo animati da particolare fiducia nei “conducenti” del sistema in cui viviamo, vediamo a questo punto le conseguenze probabili immediate e gli scenari che si aprirebbero nell’ipotesi che non si faccia davvero nulla in tempo, e che si vada direttamente alle conseguenze del crash.

                - gli scenari e il pericolo di guerra; gli schieramenti

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Figura 14  Risposta marginale dei paesi produttori di petrolio esterni all’OPEC – durante la presente crisi energetica – nell’aumento del gettito di petrolio, rispetto a quello messo in atto nelle due grosse crisi precedenti: 1973 (guerra arabo-israeliana) e 1979-80 (rivoluzione iraniana).   Fonte: CIBC.

            Il picco del tasso di estrazione del petrolio, nei vari calcoli dei diversi autori avverrà tra 5-13 anni, diciamo 10± 5 anni. È sicuro che – almeno poco prima di quel momento – i prezzi dell’energia esploderanno, in quanto la domanda continuerà a crescere, almeno fino all’instaurarsi di una grande crisi economica. In realtà la crisi dei prezzi del petrolio, del gas naturale e quindi dell’energia sta già avvenendo, in quanto – in prossimità e in anticipo sul picco – la capacità di estrazione non riesce a mantenere il passo della domanda. Proprio  come dichiarava Bernabè 2 anni fa alla rivista Forbes, quando era capo esecutivo dell’ENI. Ma vediamo l’analisi economica della Canadian Imperial Bank of Commerce, uno tra gli 8 colossi bancari più grandi del Nord America[101].  Ci dice la CIBC, che la vertiginosa salita del prezzo del petrolio – in un solo anno – da 8 $ a più di 35$ al barile – è avvenuta nonostante l’OPEC – su richiesta occidentale – abbia accelerato il pompaggio di complessivi 3.2 milioni di barili al giorno. Questo è accaduto perchè la domanda mondiale di petrolio ha avuto un passo superiore all’offerta nonostante gli aumenti di pompaggio effettuati. Il problema è che – con l’eccezione dell’Arabia Sudita, del Kuwait e degli Emirati Arabi Uniti – i produttori OPEC stanno già operando a piena potenza[102]. Specifica la CIBC, in modo da non lasciare dubbi, che anche con l’uso totale delle capacità di pompaggio saudite, l’OPEC non può accelerare il pompaggio di più di altri 3 milioni di barili al giorno, cioè meno di quanto l’OPEC abbia già accelerato quest’anno.  “All’attuale crescita della domanda”, continua la CIBC, ossia all’attuale crescita del consumo di energia, “la capacità residua di pompaggio sarà saturata prima di due anni. Oltre quel punto, la domanda dovrà essere razionata”. Tanto per chiarire, la CIBC analizza la risposta dei paesi produttori non-OPEC (che, come sappiamo, l’analisi della Petroconsultants descrive come già al picco di produzione, se non già in fase discendente). Bene: la risposta – come aumento del tasso di pompaggio – dei paesi non-OPEC in corrispondenza delle due precedenti crisi del petrolio (1973, a causa della guerra arabo-israeliana, e 1979, dopo la rivoluzione iraniana che depose lo Shah) è stata molto più alta di quella di adesso (vedi figura 14).  I paesi occidentali decisero di fare quadrato, e alla decisione dei paesi arabi di applicare un embargo del petrolio aumentarono considerevolmente il tasso di estrazione dai propri pozzi. Ma adesso, nonostante che il prezzo del greggio sia più che triplicato dal 1998, la produzione del petrolio dei paesi non aderenti all’OPEC è aumentata di uno striminzito 1% all’anno.  E qui, la CIBC fa l’ammissione più amara che possa fare un rappresentante del sistema di mercato: “tale risposta striminzita suona come un schiaffo in faccia ad uno dei canoni della teoria economica convenzionale, secondo cui i prezzi che salgono devono sollecitare e portare maggiore offerta”. In realtà, continua l’impietosa banca nord-americana, “non c’è niente di sbagliato nella teoria di una curva con andamento prezzi-offerta crescente, purchè – naturalmente – l’offerta abbia un serbatoio da cui attingere fisicamente esistente.     Insomma, non siamo ancora al picco per l’OPEC, ma ci siamo vicini. Questo, in termini geofisici, significa che il tasso di estrazione non può crescere più rapidamente perchè servirebbe troppa energia.  Allora, ci siamo: la crescita economica, per essere alimentata e poter continuare, tende già a richiedere più energia di quella che riusciamo a fornire estraendo il petrolio.  Non solo, ma con ogni probabilità prima di due anni la domanda[103] tenderà ad essere – e poi sarà definitivamente - stabilmente più alta dell’offerta.  E questo anche senza alcun peggioramento in Medio Oriente nel conflitto tra palestinesi e israeliani. I governi occidentali, e gran parte della stampa appresso a loro, tenteranno di dire che “è colpa dei palestinesi e degli israeliani”, oppure “è colpa di Saddam Hussein che ha chiesto il pagamento in euro del petrolio irakeno come condizione per continuare ad estrarre petrolio”, e altre stupidaggini di questo tipo.   Ovviamente ci saranno anche questi fattori, ma uno spettro – stavolta invincibile – tormenta i governi, specialmente quelli occidentali: lo spettro del picco definitivo della produzione del petrolio e del gas naturale, lo spettro del declino definitivo della fornitura di gas e petrolio, per motivi geologici!

            Possiamo ben capirli, i nostri governanti: e chi glie lo dice adesso, agli americani, che la crescita, osannata e promessa, tra poco non si può più fare? E che una recessione – stavolta addirittura dovuta alla disponibilità geologica di energia – è alle porte? Dopo che gli avevano detto che il mondo naviga “in un mare di petrolio”? Ma soprattutto, chi glie lo spiega, che il cosiddetto “American Dream” è finito per sempre? Ma anche le masse europee, tutte ad inseguire la crescita, qualcuno lo dovrà spiegare anche a loro…  Il “Sogno Americano” ce lo hanno un pò tutti: italiani, francesi, spagnoli, tedeschi… E il problema della redistribuzione? Ricordiamo che si diceva, per contrastare il socialismo, che sì, le sperequazioni ci sono e ci saranno sempre, ma il livello economico totale aumenterà per sempre, e dunque anche le “briciole” – quelle lasciate ai diseredati – aumenteranno senza limite alcuno. Adesso, cosa devono fare? Spiegare che non è più possibile?  Ma allora, il diavolo – cacciato dalla porta – rientra alla fine dalla finestra? E tutti i nuovi profeti della “sinistra buonista”, che ormai avevano accettato il capitalismo e i suoi Dei (il Mercato, la Crescita, etc), che fine fanno? Non avevano condotto i loro seguaci al “pentimento”, dicendogli che prima avevano sbagliato tutto e che il capitalismo è l’unica cosa possibile? E che comunque c’è la crescita a consolarci tutti?   Non dimentichiamo le masse dei paesi in via di sviluppo – sono i 5/6 della popolazione mondiale! A loro cosa si vuol dire? Che si devono fermare al livello economico in cui si trovano e a cui il Nord del mondo li ha condannati? E.. come la prenderanno i cittadini dei paesi ex-socialisti?  Sembra che anche a loro la Banca Mondiale, il Fondo Monetario, gli USA e l’Europa Occidentale abbiano promesso una impetuosa crescita economica, garantita dal sistema di mercato.

            Capite, cari colleghi, l’enormità di quanto sta per accadere, e la potenziale violenza degli effetti della crisi energetica ormai in vista.   C’è poco da immaginare strani scenari:  è almeno probabile che, al superamento dei 50-60$ al barile, gli stati Uniti cercheranno di assicurarsi il gettito di petrolio mediorientale. È altrettanto certo che l’amicizia con l’Europa non sarà più così stretta…  Si può anche immaginare che alla lunga, il consenso della classe media statunitense scemi proporzionalmente alla perdita di potere d’acquisto che sarà indotta dalla crisi. Non è possibile prevedere in dettaglio scenari complessi, come cosa succederà alle “sinistre” europee, o quale governo crollerà prima, nè quale orientamento iniziale prevarrà nell’opinione pubblica orientale o quali saranno gli effetti del contraccolpo energetico in Giappone.   Possiamo solo affermare – con un certo grado di affidamento – che un grande caos si diffonderà nei paesi industrializzati, che il settore dell’auto crollerà sia nella domanda che nell’offerta, che i trasporti in genere diventeranno carissimi, con un vero e proprio crollo dei trasporti aerei. Crollerà il turismo. Saliranno molto anche i generi alimentari. Calerà sostanzialmente il potere di acquisto totale dei lavoratori e nasceranno probabilmente grandi conflitti salariali e politici. Con il calo della liquidità, crescerà a dismisura la disoccupazione. Tutto questo e altro è immaginabile, ma imprevedibile in termini quantitativi.  Soprattutto, questo possiamo aspettarcelo, nascerà un terribile sentimento di delusione verso tutto ciò che dipende dalla crescita, verso il modello di vita attuale.  Purtroppo, non possiamo escludere che tutto ciò porti a regimi antidemocratici o dittatoriali.  Ma ancora peggio, non sappiamo prevedere e non possiamo escludere grandi conflitti regionali o interregionali.   Ci si può aspettare – probabilmente – che ancora più di adesso il Medio Oriente diventi sorgente di conflitto.  È anche abbastanza probabile, che se l’Europa non riuscirà presto a costruirsi una propria indipendenza e neutralità militare, non potrà più farlo ad ostilità iniziate, e dopo essere stata coinvolta in conflitti vari dagli Stati Uniti.  Il ruolo della Russia è altrettanto poco prevedibile in dettaglio, ma è quasi certo – vista l’alleanza militare stipulata per tutto questo secolo con la Cina – che farà parte di un qualche blocco orientale, insieme all’India (che ha aderito recentemente a tale alleanza per motivi di “sicurezza”). Una grossa incognita sarà la disposizione strategica dei paesi Arabi e dell’Islam in generale (intendendo eventuali alleanze con i grossi paesi orientali o meno) ma è certo che non saranno alleati dell’Occidente.   Anche il Giappone, con un’economia e una tecnologia industriale così dipendenti dal petrolio, sarà nell’occhio del ciclone. Vista la sua collocazione geografica è veramente difficile predire quale sarà in definitiva la sua posizione strategica verso la Cina e verso gli Stati Uniti.  Sono possibili delle sorprese.     

            La potenza militare stessa  degli Stati Uniti – come quella delle altre grandi potenze – è estremamente dipendente dal petrolio, e il fatto che le riserve strategiche USA non possano durare molti mesi la dice lunga sui rischi di guerra. Ciò che distingue le potenze orientali dagli USA – a proposito di forniture belliche di petrolio – è che probabilmente gli USA avranno più problemi per rifornirsi, a meno di non accettare un conflitto generalizzato con Cina, India e Russia, magari scatenato dalla conquista americana dei pozzi mediorientali. In ogni caso, una lunga e distruttiva crisi energetica – come è probabile che sia quella in arrivo in questo decennio – lascerà i suoi segni anche sulla funzionalità della macchina bellica USA.  Non bisogna dimenticare, infatti, che durante i due precedenti conflitti mondiali, lo sforzo bellico degli Stati Uniti era sostenuto dalla fornitura di petrolio dai pozzi sul suo stesso territorio, una fornitura che non aveva ancora incontrato il picco di estrazione e che quindi era del tutto in grado di assecondare ogni aumento della domanda richiesto dalla conduzione delle campagne militari. Una ulteriore considerazione scende dalla attuale situazione nel Medio Oriente: non possiamo escludere una “crisi dentro la crisi”: se il conflitto israelo-palestinese non si risolverà prima, sarà certo un ulteriore detonatore per la crisi energetica.

            Tutti questi scenari sono delle congetture, anche se molti sono purtroppo abbastanza probabili.

Cresceranno tensioni sempre più irrisolvibili tra paesi arabi e occidente. Una cosa sicura è anche che la crescita economica continua, il sistema del “libero mercato”, la gestione del mondo da parte della sola superpotenza americana, e lo status quo nella gestione delle risorse saranno irrimediabilmente finiti.   Purtroppo, è quasi sicuro l’aggravarsi della crisi climatica (visto il probabile massiccio uso del carbone per generare energia) a meno che la crisi economica indotta non sia così grave da diminuire comunque le emissioni di gas serra, a causa di una corrispondente notevole diminuzione del prodotto industriale.  Si può ancora prevedere – vedi Meadows[104] et al. 1991 – che al calare del prodotto agricolo (causato dalla prevedibile riduzione di fertilizzanti, pesticidi ed energia per l’irrigazione) ingenti quantità di capitale saranno via via spostate dal settore industriale a quello agricolo, in manovre di emergenza, che comunque tenderanno ad abbattere ulteriormente il prodotto industriale.

             Fermiamo qui l’analisi delle possibili conseguenze e dei possibili conflitti che saranno causati dalla  crisi energetica, nel caso disgraziato, ma purtroppo probabile,  in cui i governi non vorranno mettere in atto le necessarie misure.   Notiamo che il compito dei ricercatori “inpegnati” è quello di dedicare ognuno una parte del proprio tempo prima alla comprensione e poi alla diffusione della esatta cognizione di questi problemi, allo studio e alla ricerca dedicati alle possibili soluzioni e alla loro diffusione verso il pubblico.

            Dobbiamo a questo punto sottolineare che non ci si può più limitare ad analizzare un conflitto locale per volta, e per di più solo dal punto di vista delle pur insopportabili ingiustizie che avvengono in quel singolo conflitto ad opera delle potenze imperialiste. Lamentarsi che ci sono i “cattivi” non serve. Bisogna usare un metro di analisi più ampio, che permetta di inquadrare i singoli conflitti nel quadro generale a cui appartengono: quello della lotta per il dominio sulle risorse. Ogni motivazione locale vecchia e nuova sarà giocoforza imperniata su questa inquietante motivazione delle nuove guerre.   Come ricercatori impegnati, inoltre, non ci si può più limitare a protestare, come facciamo comunque da semplici cittadini: dobbiamo dare il nostro contributo specifico scientifico. Questo costerà sforzo, per ognuno di noi, molto più di quello che serve per dare la nostra ennesima testimonianza di dissenso contro il sistema che produce queste nuove guerre.  Sarà comunque uno sforzo necessario e di cui le forze antagoniste hanno bisogno.

Concludo ricordando che – nei peggiori casi tra quelli descritti – siamo di fronte a impatti potenzialmente distruttivi, con tempi scala dell’ordine di 10 anni. Non ci si può perdere in chiacchiere o riflessioni filosofiche: abbiamo poco tempo.



[1]business-as-usual” significa senza variazioni dall’andamento attuale. D’ora in poi useremo l’abbreviazione BAU.

[3] (R. Duncan & W. Youngquist, University of California, Los Angeles, vedi http://dieoff.com/page133.htm )

[5] http://www.petroconsultants.com/iwatch/index.html. Recentemente, la Petroconsultants ed altre agenzie tecnico-scientifico-economiche sono confluite nella  “IHS Energy Group”, il sito è: http://www.ihsenergy.com/ . È l’agenzia con il database, le potenzialità di analisi e prospezione maggiori su scala mondiale.

[8] R. Duncan & W. Youngquist, “The world Petroleum Life Cycle”, vedi http://dieoff.com/page133.htm

[9] l’energia netta è la differenza tra l’energia ottenibile bruciando i prodotti raffinati (ottenuti da una quantità data di petrolio) meno l’energia impiegata per l’estrazione, il trasporto e la raffinazione della stessa quantità di greggio. Un’energia netta negativa blocca qualsiasi attività economico-industriale volta alla produzione – in forme utilizzabili per il consumatore – di una risorsa energetica.

[10] a parte, ovviamente, l’energia spesa per la costruzione dei macchinari (che non è sempre banalmente trascurabile).

[11] Con la sua teoria, King Hubbert riuscì a prevedere quantitativamente – con l’anticipo di più di 15 anni –  il picco del tasso di estrazione del petrolio dei pozzi dei 48 “lower states” degli Stati Uniti, avvenuto intorno al 1970 (vedi  al sito http://www.hubbertpeak.com/  ).

[12] Il cosiddetto “EUR oil” – quantità stimata estraibile di petrolio, che è in pratica una frazione variabile dal 60% all’80% della quantità inizialmente giacente nel pozzo (prima di cominciare ad estrarre)

[13] Nel 1970

[14] all’inizio di questo anno.

[15] Financial Times, New Yrok Times, Washington Post

[16] vedi figura 5, raffigurante il modello standard: nel 2000 le risorse calcolate sono poco al di sopra del 75%.

[17] 1.2 GtonC/year, oppure 4.4 GtonCO2/year è il valore “limite” – calcolato dall’IPCC – delle emissioni di anidride carbonica da non superare se si vuole ottenere che la prevista crisi climatica non sia troppo distruttiva e non vada fuori controllo (runaway greenhouse effect), ma che converga ad uno stato di equilibrio per noi sostenibile. I limitimenzionati nel testo implicano quindi dei tagli dell’ordine dell’80%.

[18] “modelli di tristezza e di sventura”, così Nordhaus chiamò il lavoro della squadra di scienziati del General Dynamics Group del Massachussets Institute of Technology, sponsorizzato dalla Volkswagen.

[19] Beyond the Limits : (Confronting Global Collapse, Envisioning a Sustainable Future) di  Meadows et al., Chelsea Green Pub Co; ISBN: 0930031628 reperibile su Amazon, www.amazon.com/exec/obidos/ISBN%3D0930031628/103-9478177-8023817 oppure: Oltre i Limiti dello Sviluppo, ed. Il Saggiatore.

[20] vedi A. Di Fazio, in: “Imbrogli di Guerra”

[21] vedi la sezione sulla crisi agricola nel presente articolo.

[22] Chief Executive Officer

[23] dopo due sole settimane, il prezzo del greggio è risalito sopra ai 33 $/barile, ben prima dell’inasprimento della crisi israelo-palestinese dell’ottobre 2000.

[24] nonchè la velocità con cui  il tasso di pompaggio tende a diminuire in prossimità del massimo di produzione

[25] Ad esempio, separare la crusca e le diverse farine nei cereali.

[26] Anche il tasso di estrazione del gas naturale piccherà nel prossimo decennio, poco dopo il petrolio.

[27] Cornell University, Ithaca, NY

[28] Pimentel intende “fantasma” rispetto al terreno usato da una agricoltura non petrolio-assistita.

[29] Albert A. Bartlett, fisico della University of Colorado, Boulder

[30] ovviamente, la media pesata con la massa di prodotto,

[31] questa è la stima EUR, cioè la quantità effettivamente estraibile, cioè recuperabile.

[32] Gb :  Gigabarrel, i.e. miliardi di barili.

[33] shortage: scarsità.

[34] Ad un tasso cioè minore o uguale a quello medio di ricrescita della biomassa stessa, anzi, strettamente minore per tenere conto delle oscillazioni di raccolto per motivi climatici e/o di infestazioni di insetti.

[35]Per chi  non conosce queste unità,  1TWh (= un terawattora) equivale a un miliardo di kilowattora. 1TWh/anno equivale, per 100.000 abitanti in nuclei familiari di 3 persone, ad una potenza di circa 3.4 kilowatt a famiglia.

[36] 1 quad, abbreviazione che sta per quad BTU (unità di energia: 1 quadrillion BTU, o un milione di miliardi di BTU).  1BTU (British Thermal Unit) equivale a 0.252kcal, ossia 1.055kJ.  1 quad equivale dunque a 1.055´1018 joules, che corrispondono circa a poco più dell’1% (~ 1.17%) dell/energia usata in un anno dagli Stati Uniti .

[37] da Alfheim & Ramdahl 1986, DOE 1980. (Il DOE è il Department of Energy del governo USA).

[38] Al momento, 722 milioni di veicoli.

[39] Per “energia in idrogeno” ovviamente si intende l’energia ottenuta bruciandolo.

[40] Stime precedenti al 1992-1993

[41] Vedi Howard T. Odum, in “Environmental Accounting – Emergy and Environmental Decision Making”, John Wiley and Sons, Inc., New York, 1996, ISBN 0-471-11442-1

[42] usando tecnologie e materiali all’avanguardia.

[43] Si può mostrare che, attuando risparmi nel processo produttivo si potrebbe arrivare ad un rapporto » 0.63 e prolungando la vita dei pannelli al massimo, si potrebbe arrivare ad un valore » 1, che significa che nella loro vita i pannelli non farebbero altro che restituire l’energia impiegata a costruirli e a fare manutenzione.  Cosa che lascia un apporto energetico circa nullo per la società umana.

[44] Vedi l’assessment – e il grafico comparativo della produzione di energia dalle diverse fonti – nel sito dell’IEA, nel rapporto al G8, all’URL http://www.iea.org/g8/world/fuels.htm. Vedi anche il sito dell’EIA (Energy Information Administration) del governo USA, al sito http://www.eia.doe.gov/oiaf/ieo97/nuclear.html.

[45] si tratta di grandi centrali, da un miliardo di Watt l’una.

[46] quanto uranio impoverito dovranno usare gli americani – tra proiettili, materiale da costruzione al “DU-crete”, etc.  – per poter smaltire tale accumulo?

[47] i “fast breeder reactors” o reattori auto-fertilizzanti.

[48] Stagni solari.  Diversi strati di acqua, tenuti in celle con un gradiente salino catturano radiazione solare e la immagazzinano sotto forma di energia interna, a 100 C. Il vapore viene poi utilizzato per far girare dei generatori elettrici.

[49] Soltanto in acque ridossate, per l’evidente impossibilità di una ragionevole durata degli impianti esposti agli uragani e alle tempeste tropicali. In pratica, non si può esporre un impianto di produzione elettrica che sfrutta le onde ad un mare superiore a forza 7 (vento forza 8-9: 40-45 nodi)

[50] con quali risorse in un mondo a deficit di energia, in piena crisi petrolifera?

[51] Business-as-usual, ossia conservando lo stesso andamento in crescita degli ultimi 130-150 anni di sviluppo economico-industriale-tecnologico, vedi articolo di A. Di Fazio nel libro “Imbrogli di Guerra”, Odradek, 1999.

[52] vedi A. Di Fazio, in “Imbrogli di guerra”, fig. 3, che mostrala correlazione tra emissioni e prodotto industriale. Le emissioni, ovviamente,  a loro volta sono proporzionali all’energia usata per unità di tempo.

[53] per mettere in pratica lo sforzo tecnologico-economico necessario e per distribuire in tutto il mondo gli impianti e il know-how necessari.

[54] Inoltre ciò avverrà non per mitigare una crisi ambientale, sia pur terribile, come quella climatica, bensì per un motivo esterno alle scelte dei governi dei paesi industrializzati: il forte e progressivo calo della produzione di energia in presenza di una domanda crescente, necessaria per alimentare la crescita economica.  Insomma,  l’inevitabile picco del petrolio, causato  non dai soliti contingenti motivi economico-militari, ma dalla calante consistenza dei giacimenti.

[55] Il presidente di turno del G77&China è – per la prima volta –  il segretario generale dell’OPEC, il nigeriano Sig. Rilwanu Lukman. E il G77 ha appena avanzato ufficialmente (Lione, settembre 2000) la richiesta di ottenere dai paesi industrializzati risarcimenti per le riduzioni di vendite di greggio che saranno causate dalle misure imposte per ridurre le emissioni di anidride carbonica.

[56] Il primo test sarà il comportamento europeo nella crisi yugoslava, dopo il recente cambio alla guida della Federazione Yugoslava.

[57] West Antarctic Ice Sheet.

[58] Parti per milione in volume. L’attuale concentrazione è di circa 370 ppmv.

[59] Trend che dura senza soluzione di continuità dal 1850!

[60] Second Assessment Report, approvato nella Plenary di Roma, 1995.

[62] M. Oppenheimer; 1998 Nature Vol. 393 N. 6683 pagg 325 – 332,  chi ha accesso al sito di Nature veda: http://www.nature.com/cgi-taf/DynaPage.taf?file=/nature/journal/v393/n6683/full/393325a0_fs.html&filetype=&content_filetype=

[63] Il comune di N.York ha già fatto la prima campagna di irrorazione (tramite elicotteri, su tutta la città) di potenti insetticidi (piretroidi o permetrine) nel passato mese di luglio, con vive proteste di organizzazioni di cittadini per le conseguenze ambientali e per la salute, messa a rischio dai composti tossici usati. Lo stato della Florida ha analogamente lanciato una campagna aerea di spray (su campi e città) a base di organofosfati.

[64] Per ora sono stati colpiti solo diverse centinaia di cavalli, ma il bureau per il controllo epidemie del Ministero dell’Agricoltura riporta l’allarme per la possibilità che l’epidemia si sparga tra gli esseri umani (come a New York)

[65] il cicloni (uragani+tempeste tropicali) nel 1840 erano in media 20 circa l’anno. La frequenza è cresciuta – stabilmente e mantenendo lo stessa pendenza – ai 140 attuali in media all’anno.

[66] i tornado negli USA erano in media 400 all’anno nel 1952. Ora sono 1600 all’anno in media.

[67] I dati, rilevati sistematicamente a partire dal 1922, sono dell’Istituto Mareografico di Venezia.  Gli eventi di acqua alta a Venezia – essendo causati da colpi di vento da Sud-Est con forza Beaufort > 7 – sono tracciatori del transito del bordo orientale delle perturbazioni atlantiche sull’Adriatico, e quindi la frequenza di acque alte è in pratica la frequenza delle perturbazioni (con l’eccezione di quelle provenienti da est, che però sono statisticamente molto poco frequenti, tipo 1-1.5%). I dati – ovviamente – sono trattati per sottrarre l’effetto della subsidenza del fondo lagunare e dell’elevazione del livello del Mediterraneo fin qui verificatasi.

[68] Clorofluorocarburi(composti basati sui legami C-Cl, C-F e C-H: si usano come liquidi dei circuiti refrigeranti e nell’industria elettronica, per lavare i circuiti integrati)

[69] monossido di cloro

[70] che li bandisce direttamente alla produzione.

[71] Idrofluorocarburi (composti basati sui legami C-F e C-H)

[72] Le riassicurazioni sono i colossi finanziari-assicurativi (come i Lloyds di Londra, Muenich Reinsurance, Swiss Reinsurance, etc.) con i quali si riassicurano le normali compagnie di assicurazioni per scaricare le polizze da loro pagate per una serie di categorie di grossi danni.

[73] “squarta e brucia”.

[74] Paesi in via di sviluppo.

[75] vedi  in “Inbrogli di Guerra”

[76] negli USA, per esempio, il 40% del PIL proviene dall’agricoltura.

[77] La versione del 1991 prevedeva il picco a circa 9 miliardi di individui, v. fig. 5.

[78]Convention to Combat Desertification (UNCCD). Vedi il sito http://www.unccd.int/main.php

[79] Monsanto, Novartis, etc., sono invece lanciate a mettere sotto brevetto praticamente tutte le nuove tecnologie agricole, in maniera tale che tutti, paesi sviluppati e soprattutto PVS, siano costretti a comprare ogni anno costosissimi pacchetti e sementi, che spesso costano una frazione apprezzabile o addirittura dominante del PIL del paese acquirente.

[80] International Fund for Agriculture and Development.

[81] United Nations Convention on Biodiversity. Vedi il sito http://www.biodiv.org/

[82]emergy: da embodied energy. L’emergy, introdotta da Odum, nel caso dei vegetali è la quantità di energia solare immagazzinata in legami organici C-H, e quindi proporzionale alle calorie (tutto per unità di massa) immagazzinate per processo clorofilliano. Nel caso in cui il vegetale è un  alimento, l’emergia per unità di massa è quindi proporzionale al potere nutritivo per unità di massa. In generale l’emergia è una misura dell’energia totale impiegata per ottenere un prodotto.

[83] Ottenuta direttamente dal World Watch Institute  (G. Gardner) che ringraziamo vivamente.

[84] Ormai visibilmente meno che linearmente nel tempo.

[85] Il cosiddetto “emission trading” o “commercio delle emissioni”, vera e propria compravendita dei “diritti di inquinare”.

[86] Alleanza negoziale le cui iniziali stanno per Japan, United States, Canada, New Zealand. Il gruppo include anche la Norvegia. La Gran Bretagna – nelle negoziazioni sul clima – è invece schierata con l’Unione Europea.

[87] La Sixth Conference of the Parties, o COP6.

[88] United Nations Framework Convention on Climate Change, il Trattato generale sul clima firmato a Rio de Janeiro nel 1992, che istituisce la Conferenza delle Parti come organo esecutivo mondiale che adotta in provvedimenti sul clima.

[89] I paesi del Nord del Mondo, essenzialmente i paesi dell’OCSE più i paesi dell’ex-Patto di Varsavia: paesi “Annex 1” nel testo della Convenzione.

[90] Vedi il testo della Convenzione nel sito UNFCCC (http://www.unfccc.de/). Si può richiedere al Segretariato al clima (nel sito testè indicato) o al WMO (World Meteorological Organization: http://www.wmo.ch/) una copia della Convenzione. Essa è anche presente nella Gazzetta Ufficiale Italiana: è la Legge n. 65 del 1994.

 

[92] Si ricordi infatti che le emissioni attuali sono dominate dai paesi del Nord del mondo, ma che il tasso di sviluppo della Cina, del Sud-Est Asiatico varia dal 5 al 9%, ben superiore addirittura a quello degli USA. Ricordando inoltre che le emissioni sono rigorosamente proporzionali al prodotto industriale interno lordo, si capisce come presto le emissioni dei PVS – al trend attuale – raggiungeranno e supereranno quelle dei paesi industrializzati. Le emissioni dell’India sono anch’esse in crescita superiore a quella dei paesi europei.

[93] Vedi il mio articolo “The fallacy of pure efficiency gain measures to control future climate change” sul sito dell’Università di Melbourne: http://astro.ph.unimelb.edu.au/~rwebster/difazio.html ,  oppure sul sito di Jay Hanson sul global change: http://dieoff.com/page203.pdf

[94] “Meccanismo di Sviluppo Pulito”.

[95] Cioè non allo standard occidentale, in cui (come già descritto) la produzione di energia fornirebbe un prodotto inferiore al costo sostenuto per produrlo.

[96] Uguaglianza dell’accesso alle risorse su base pro capite (e non basata sull’uguaglianza tra paesi)

[97] La riduzione  IPCC è tra il 60 e l’80%, come intervallo di errore: 60% potrebbe non bastare. Il limite temporale approssimativo potrebbe essere 30-35 anni per il clima, ma visto che non conosciamo quantitativamente con esattezza le interazioni con la crisi energetica, precauzione vuole di mantenersi ben al di sotto dei limiti inferiori.

[98] Vedi più sopra, l’analisi della crisi agricola e dell’erosione dei territori arabili.

[99] I clorofluorocarburi (CFC) sono già vietati dal Protocollo di Montreal, mentre degli idrofluorocarburi (HFC) e dei perfluorocarburi (PFC) è prescritta la riduzione – di quantità per ora minime – dal Protocollo di Kyoto e sono oggetto di ulteriore negoziazione.

[100] La metafora però è calzante solo per quanto riguarda tempi e frenata, poichè il conducente e gli occupanti del veicolo del nostro esempio vedono il muro avvicinarsi, e al massimo possono essere volontariamente spericolati o commettere suicidio. La stragrande maggioranza degli abitanti del nostro pianeta, invece, ancora non sa del “muro” verso cui siamo diretti e dunque non si aspetta lo schianto.

[101] Vedi ai siti http://research.cibcwm.com/economic_public/download/Fcsep00.pdf      e:    http://research.cibcwm.com/ economic_public   /download/Or28.pdf   .     L’istituto è descritto in    http://www.cibcwm.com/.   L’industria e il mondo della finanza tende a mantenere riservate queste analisi, ma siamo riusciti, tramite il Dr. Colin Campbell, ad ottenerei siti della Petroconsultants, dell’IEA, e adesso della CIBC. Inutile dire che ottenere documenti governativi su questi argomenti è ancora più difficile, anche se il rapporto dell’IEA ai ministri G8 mette (almeno) questi governi con le spalle al muro, per quanto riguarda l’eventuale loro tentativo di dire che non ne sapevano nulla…  La stampa italiana invece… praticamente non esiste.

[102] Il Kuwait ha recentemente (e successivamente al rapporto CIBC) dichiarato ufficialmente di essere anch’esso già alla  massima capacità estrattiva.

[103] Ovviamente, si intende quella domanda che permetterebbe la continuazione della crescita economica che dura da circa 150 anni. Smettendo la crescita, la domanda calerà, ma a causa della crisi economica e della recessione.

[104] In Beyond the Limits, op. cit.