Questo documento è pubblicato nel sito:
www.aspoitalia.it

Lettera di riflessione n. 101 - Giugno 2000
Traduzione di Aldo Carpanelli, pubblicata anche su Il sito di Carpanix
La versione originale in inglese è disponibile su www.oilcrash.com

 

SCIENZA IMPOPOLARE

di Richard Heinberg


Le argomentazioni dei sostenitori dell’abbondanza
Un atterraggio morbido?
Possibilità più oscure
Chi lo dirà alla gente?


Nel corso dei due anni passati (dalla pubblicazione di “La fine del petrolio a buon mercato” di Colin Campbell e Jean Laherrere su Scientific American del Marzo 1998) ho seguito sulla stampa la discussione relativa alla fine imminente dell’era del petrolio (si rivedano i numeri 81 e 91 delle “Lettere di riflessione”). Fino a tempi recenti c’è stato rimarcabilmente poco da rilevare. Questo fatto in sé è rimarchevole. La civilizzazione industriale si basa sul petrolio, e il consenso che sta emergendo tra gli esperti indipendenti è che la produzione mondiale di petrolio raggiungerà il suo massimo in qualche momento compreso tra gli anni 2005 e 2010, con rapidi incrementi nei prezzi e carenze di disponibilità immediatamente successive. Questa dovrebbe essere una notizia importante ed inquietante, degna di centinaia di articoli a caratteri cubitali sui giornali del mondo. Ma per mesi ho cercato invano di trovare un qualsiasi riferimento all’argomento (a parte l’articolo già citato) tra le pubblicazioni più rilevanti. Poi, nell’ultimo mese, un frammento di notizia cominciò ad apparire. Il numero di maggio di Popular Science presentò un articolo intitolato “Idrogeno su ruote”, con una colonna laterale di William G. Phillips sottotitolata “Stiamo realmente esaurendo il petrolio?”. “Soffrite di shock da prezzi alla pompa?” chiede Phillips. “Non aspettatevi una tregua in tempi brevi.” L’autore continua:

Sebbene il più recente aumento dei prezzi del carburante negli Stati Uniti [come pure in Italia - N.d.T.] sia stato il risultato di una riduzione della produzione petrolifera tra gli 11 membri dell’OPEC (Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio), il mondo dovrà fronteggiare una questione molto più grande nei prossimi 10 anni, che terrà i prezzi a un livello elevato: stiamo esaurendo il petrolio. Davvero.

Sebbene il grande pubblico -- essendo stato avvisato dell’impoverimento delle riserve di petrolio per decenni -- stia assumendo un atteggiamento del tipo “Ci crederò quando lo vedrò”, i fatti sono un poco snervanti. Oggi, il mondo scopre un nuovo barile di petrolio ogni quattro che consuma. Le scoperte di petrolio nel mondo hanno raggiunto l’apice negli anni ‘60… Oltre il 90% del petrolio odierno proviene da giacimenti scoperti più di 20 anni fa -- e la maggior parte di quelli scoperti nell’ultimo decennio erano estremamente piccoli. L’opinione comune nell’industria è che, basandosi sulle riserve correnti, sulle scoperte previste e sulla domanda attuale, il mondo rimarrà senza la sua risorsa più preziosa nel 2050.

In fondo a questa colonna da una pagina c’è un grafico della produzione petrolifera (reale e in proiezione) dal 1930 al 2090. Ne riproduco l’essenziale qui [in effetti il grafico non era presente nella copia a mia disposizione - N.d.T.]. Ho notato l’articolo mentre stavo sfogliando delle riviste in un espositore di giornali all’aeroporto di Denver nell’attesa di un volo. Mentre me ne stavo in piedi a contemplare la curva del grafico, non potevo fare a meno di pensare “Questa è la curva dell’industria globale e del collasso economico”. Dal 2010 al 2020 la produzione crolla di oltre la metà. Le implicazioni più probabili: in quindici o vent’anni non ci sarà più virtualmente alcun trasporto aereo -- poiché al momento non si può far funzionare un aereo di linea con altro che con il petrolio raffinato, e un calo del 50% nelle forniture di petrolio si tradurrà quasi certamente in una scalata dei prezzi nell’ordine di centinaia o migliaia per cento (per farsi un’idea dei legami tra la carenza nelle forniture e i probabili aumenti dei prezzi, ricordate che il prezzo del greggio triplicò negli ultimi 18 mesi, da $10 a $30 al barile, sulla base di un semplice declino del 3% nella produzione; quindi un prezzo della benzina di $50 al gallone entro il 2010 è difficilmente inconcepibile). Quante persone affolleranno i Boeing 747 se il prezzo di un viaggio da New York a Los Angeles crescerà fino a, diciamo, $10.000? Probabilmente solo alcuni ricchi dirigenti. Standomene in piedi nel cavernoso aeroporto me lo immaginai pieno non di viaggiatori indaffarati, ma di orde di occupanti abusivi. [1 gallone = 3.79 litri circa -- sarebbe opportuno che il lettore italiano provvedesse ad alcune semplici conversioni in Euro, tenendo conto del prezzo immensamente inferiore della benzina in America rispetto all’Europa - N.d.T.]

Tentate un esercizio simile. Andate nel centro di una città. Una città di qualsiasi dimensione andrà bene. Trovate un posto ove sedervi e spendete un po’ del vostro tempo guardandovi intorno. Come sarà quel posto con la metà del petrolio disponibile rispetto ad ora? E con un quarto?

Questo punto merita di esere sottolineato: il petrolio è la linfa vitale della moderna società industriale. Per ogni caloria di energia solare contenuta in ogni piccolo pezzo del cibo che mangiamo, ci sono dieci calorie di energia derivate dal petrolio -- sotto forma di prodotti chimici e macchinari per l’agricoltura, trasporti verso i mercati, refrigerazione e imballaggio. In effetti, noi mangiamo il petrolio. Il 40% di tutta l’energia captata dagli esseri umani sul pianeta proviene dal petrolio. La maggior parte del resto proviene più direttamente dal sole (sotto forma di legname e di raccolti agricoli alimentari), dal gas naturale (il quale si sta pure esaurendo rapidamente, con il raggiungimento di un picco di produzione mondiale distante solo 25 anni), dal carbone (i cui costi ambientali sono enormi), e dall’energia idroelettrica. La parte propria del petrolio, pur non costituendo la maggioranza, è essenziale per i trasporti e l’agricoltura, e dal punto di vista pratico non può essere sostituita da nessuna altra fonte di energia in tempi brevi (se ne parlerà ancora più avanti).

Questa è sicuramente la più grande notizia degli ultimi decenni. Qui, seppellita in una colonna laterale in una singola rivista, c’è la prova chiara che la società industriale sta per sbattere contro un muro. Entro un solo decennio o due potremo probabilmente vedere non solo il collasso dell’industria del trasporto aereo ma la fine virtuale del commercio globale e, parimenti, una crisi dell’agricoltura industriale.

Nello stesso mese, apparvero altri due importanti articoli. (Tre articoli possono non sembrare molti, ma confrontati con il quasi completo blackout fino al marzo 1998, si tratta di una autentica bufera di servizi giornalistici.) L’American Petroleum Geologist Explorer riportava un pezzo intitolato “Bulls and Bears Duel Over Supply” [Il duello dei Bulls e dei Bears circa le disponibilità], di David Brown; e The New Republic presentava il saggio “Opportunity Cost: Hooray for Expensive Oil!” [Il costo dell’opportunità: evviva il petrolio costoso!], di Gregg Easterbrook, nel suo numero del 15 maggio.

Entrambi questo articoli coprivano campi simili, informando i lettori su come il geologo M. King Hubbert, negli anni ‘50, formulò il principio in base al quale la produzione petrolifera di una qualsiasi riserva data, avrebbe raggiunto il suo apice esattamente quando quella riserva fosse stata esaurita a metà. Le prove accumulate da allora hanno più volte confermato la teoria di Hubbert. La produzione petrolifera statunitense raggiunse il massimo nel 1970, solo un anno dopo la data prevista da Hubbert, e da allora è andata declinando.

Ecco come Colin Campbell, un geologo in pensione della Texaco e il più rispettato pessimista sulle disponibilità petrolifere, riassunse la situazione in una recente lettera al New York Times: “La scoperta [di nuovi giacimenti] nei 48 stati continentali degli USA raggiunse il massimo nel 1930 e il corrispondente apice della produzione seguì dopo circa 40 anni. La scoperta nel Mare del Nord raggiunse il massimo nel 1973 e ora quell’area si trova di fronte al corrispondente apice produttivo. Lo stesso modello è in atto in tutto il mondo.”

Non ci vuole un’aquila per capire il modello; il problema è inserire i dati giusti. L’industria ha… tratto in inganno molti analisti inducendoli a pensare che si stesse scoprendo più di quanto realmente si scopriva. Molti Paesi dell’OPEC annunciavano enormi revisioni verso l’alto delle riserve da un giorno all’altro nei tardi anni ‘80, poiché rivaleggiavano a vicenda per accaparrarsi quote che erano basate su di esse. Poi c’è il problema di cosa misurare -- dove tracciare il limite tra petrolio convenzionale e non convenzionale e come trattare i liquidi derivati dal gas. La pratica di fornire definizioni e rapporti di manica larga stese una spessa cortina di fumo sulla materia.

Se potessimo sgombrare il campo da questa cortina ci accorgeremmo che la scoperta dei giacimenti ha raggiunto il suo picco negli anni ‘60, a dispetto di tutta la tecnologia, delle nuove conoscenze e della ricerca finalizzata alla scoperta dei maggiori giacimenti rimasti estesa a tutto il mondo. Ci sono circa mille miliardi di barili ancora da estrarre, la metà dei quali si trova in solo cinque Paesi del Medio Oriente. La percentuale della loro produzione era del 38% all’epoca della prima crisi petrolifera nel 1973, ma crollò al 18% nel 1985 quando nuove aree produttive in Alaska, nel Mare del Nord e altrove, che erano già state scoperte prima della crisi, cominciarono a fornire il loro flusso produttivo. La quota di produzione dell’OPEC è andata crescento da allora fino al 30% attuale, ma questa volta è destinata a proseguire la sua crescita dal momento che non ci sono nuove importanti aree produttive in vista. A un certo punto, questa quota in crescita si tradurrà in un altro shock economico. Questa crisi sarà diversa dalle precedenti, poiché è dovuta alla reale disponibilità della risorsa stessa e alla immutabile fisica dei giacimenti, non alla politica. Il picco nella scoperta di nuovi giacimenti degli anni ‘60, sottintende un picco nella produzione globale verso il 2005.

Pochi non sono d’accordo sul fatto che il punto intermedio del periodo di disponibilità del petrolio arriverà presto, né che il mondo intero rimarrà quasi completamente privo di petrolio liquido per la fine di questo secolo. Quando il punto intermedio nella produzione petrolifera globale verrà raggiunto, la disponibilità comincerà a calare e il prezzo crescerà -- probabilmente abbastanza in fretta (dal momento che la domanda continua a crescere, attualmente di circa il 2,5% all’anno).

L’articolo dell’Explorer, sebbene sia intitolato come se si trattasse di un dibattito tra ottimisti e pessimisti in relazione al petrolio, in realtà presentava quasi solamente le prove dal punti di vista dei Bears. Il pezzo di Easterbrook su The New Republic (Easterbrook potrebbe facilmente essere dipinto come l’ambientalista addomesticato dell’American Corporate Establishment) argomentava che l’inevitabile, ripida ascesa dei prezzi incoraggerà l’uso di combustibili alternativi -- inclusa l’energia atomica). [Si pensi a come, da un paio d’anni, sia in corso anche in Italia un processo propagandistico di graduale riabilitazione del nucleare - N.d.T.]

Parlerò delle idee di Easterbrook più avanti. Ma prima, che dire dei Bulls -- coloro i quali ci assicurano che non stiamo esaurendo il petrolio? Su cosa basano il proprio ottimismo?

 

Le argomentazioni dei sostenitori dell’abbondanza

La maggior parte di coloro che sono ottimisti riguardo al petrolio sono economisti che lavorano per le compagnie petrolifere. Ci sono eccezioni, ad ogni modo, quali l’economista Michael Lynch del Massachussets Institute of Technology, che nota come le riserve (riportate) odierne siano maggiori di quelle del 1973, quando ci fu la prima crisi. Lynch e colleghi ci ricordano che si sono sempre fatte nuove scoperte -- quali gli enormi, recenti ritrovamenti nel Mar Caspio -- e che ci sono altri grandi giacimenti già noti e in attesa di essere trivellati, come nel caso degli ambientalmente delicati campi petroliferi marini in Alaska. La miglior tecnologia ci aiuterà a recuperare il petrolio presente nei pozzi già esistenti in modo più efficiente. E più il petrolio diventerà costoso, più incentivi ci saranno per cercarlo. Nuovi equipaggiamenti sismici digitali connessi ai satelliti possono produrre mappe tridimensionali più accurate dei campi petroliferi in termini di ore. Ciò significa più petrolio per ogni pozzo trivellato.

I pessimisti riconoscono che tutto ciò è vero. Ma guardate i dati: al mondo attualmente si stanno consumando più di 26 miliardi di barili di petrolio all’anno ma se ne scoprono solo 6 miliardi. Le nuove tecnologie saranno d’aiuto, ma non cambieranno significativamente la curva della produzione. Il geologo petrolifero Joseph Riga è citato nel pezzo del Popular Science per aver detto: “Abbiamo una ragionevole idea di dove trovare il petrolio e non ci sono rimaste poi così tante aree da esplorare. Se la tecnologia ci salverà, sarà perché spezza la nostra dipendenza” non perché consente di localizzare nuove riserve all’infinito.

Le notizie riguardanti il Mar Caspio sono spesso scritte in modo tale da dare ai lettori l’impressione che il mondo godrà di provviste fresche. In risposta, un gruppo di discussione, www.runningonempty.org, offre ai suoi lettori un titolo di testa “Il gigante del petrolio Lukoil scopre 2,2 miliardi di barili di petrolio nel Mar Caspio” quindi chiede: “In termini di consumi petroliferi globali, quanto dureranno?”. Le possibili risposte sono 3,5 settimane, 3,5 mesi, 3,5 anni o 3,5 decenni. La risposta esatta risulta essere più prossima a 3,5 settimane: il mondo consuma circa 26 miliardi di barili di petrolio all’anno e ad un ritmo crescente. Di questo passo, 2,2 miliardi di barili dureranno meno di un mese.

In termini economici, ciò rappresenta ancora un enorme profitto potenziale. E così il Mar Caspio è, e sarà nel futuro prevedibile, un significativo centro di manovre geopolitiche (il numero della primavera/estate del Covert Action Quarterly riporta una articolo che tratta i percorsi degli oleodotti presenti e futuri e le loro implicazioni globali: aspettatevi più tentativi americani di riavvicinamento all’Iran, e altre guerre in quell’area). Ma anche i più ottimisti prevedono che i 200 miliardi circa di barili di petrolio reperibili nell’intera regione caspica rappresentino solo un rinvio si pochi mesi del picco nella produzione petrolifera, una volta che i programmi di produzione siano completati. La cosiddetta “riserva strategica” dell’America contiene forniture di petrolio per 52 giorni, e ogni nuova scoperta in Alaska, così come quella nel Mar Caspio, ritarderà semplicemente il picco produttivo di settimane o di mesi. In generale, gli ottimisti riguardo alle questioni petrolifere, hanno molto in comune con i sostenitori dell’industria (in molti casi sono le stesse persone) che ci hanno detto che il riscaldamento globale è un frutto della nostra immaginazione. Gregg Easterbrook, molto difficilmente un avversario dell’establishment dell’energia, conclude il suo esame della questione delle disponibilità petrolifere notando che…

“Gran parte del dibattito ottimisti/pessimisti verte su ciò che sappiamo in opposizione a ciò che facciamo. Mandrie di elefanti [giganteschi pozzi di petrolio] potrebbero aspettare nell’acqua profonda, e i futuri avanzamenti della tecnologia potrebbero darci accesso a petrolio l’estrazione del quale è ancora costosa in modo proibitivo. È possibile che avremo decenni e decenni di petrolio a basso costo. Ma non ci sono prove, solo la fede nell’ingenuità umana. La scommessa prudente è basata su ciò che si conosce. E basandosi su ciò che è noto, l’era del petrolio a buon mercato sembra che si stia avvicinando alla fine.”

 

Un atterraggio morbido?

Il che ci porta al punto principale trattato da Easterbrook. Gli ambientalisti hanno sostenuto per decenni che dovremmo ridurre la nostra dipendenza dall’inquinante, non rinnovabile petrolio e convertirci alle sorgenti di energia alternative quali il fotovoltaico, il vento, l’idrogeno e il micro-idroelettrico. Il petrolio a buon mercato ha rimosso l’incentivo economico per la società a mettere in atto quella prudente conversione. Se il petrolio diviene scarso, non verrà semplicemente indotta un’era “verde” di risparmio e di combustibili alternativi? Non sarà una benedizione?

Lo sarà veramente, se sopravviveremo alla conversione. Come la mette Eastbrook: “La fine del petrolio a basso costo non è solo probabile; può essere una cosa positiva, se non coglie la società di sorpresa. Da quando Ronald Reagan scartò i pannelli solari che Jimmy Carter aveva installato sul tetto della Casa Bianca, l’America ha sistematicamente sostenuto e promosso il petrolio, ignorando la ricerca di alternative. La realtà è che praticamente nessuno è preparato ad una nuova, prolungata crisi petrolifera. L’articolo del Popular Science mostra un simile scollamento tra i fatti che dipinge e il messaggio positivo che promuove. “Saranno… pronte per tempo le alternative?”, chiede Phillips. Felicemente, la sua risposta è: “Sembra promettente. Non esauriremo il petrolio improvvisamente nel 2050, poiché il tasso di produzione rallenterà… In aggiunta, in tutto il mondo ci sono grandi quantità di carbone, sabbie catramose e scisti petroliferi (rocce contenenti petrolio) dai quali può essere ottenuto il petrolio. Il greggio non scomparirà mai del tutto nel futuro prevedibile, ma diventerà molto più costoso”. Tutto questo nella stessa pagina del grafico che mostra la disponibilità di petrolio cadere precipitosamente subito dopo che la produzione raggiunge il massimo fra soli 10 anni da ora.

Saranno pronte le energie alternative? Sarebbe stato possibile, se avessimo avviato la transizione trent’anni fa. Le infrastrutture energetiche di una società non possono essere rimpiazzate nel giro di una notte. Stime prudenti suggeriscono che sono necessari approssimativamente quattro decenni per riprogettare e sostituire l’intero parco di automobili e autocarri, così come le centrali elettriche, l’equipaggiamento per il riscaldamento e il condizionamento, i sistemi agricoli. Il passaggio sarebbe estremamente costoso sia in termini economici che energetici. Potrebbe probabilmente essere sostenuto solo dalla continuata disponibilità di carburanti poco costosi, abbondanti, altamente concentrati. Il che è esattamente il problema che stiamo tentando di risolvere: quei combustibili economici e concentrati non saranno disponibili ancora a lungo.

C’è poi un’altra questione… Le energie alternative saranno in grado di fornire le stesse funzioni del petrolio, anche supponendo che possano essere ottenute abbastanza rapidamente? Come ho messo in evidenza nella Lettera di Riflessione n. 91, i carburanti alternativi sono, per la maggior parte, non in grado di sostituire l’energia altamente concentrata che fornisce il petrolio. Il gas naturale potrebbe farlo, ma ci si aspetta che la sua produzione raggiunga l’apice subito dopo quella del petrolio. L’etanolo è ricavato da colture cresciute su terreni che saranno sempre più necessari per il cibo, ed è attualmente prodotto usando petrolio per far funzionare gli equipaggiamenti agricoli. Non è possibile mettere il carbone o gli scisti petroliferi in un serbatoio senza processi di raffinazione estremamente costosi e avidi di energia, e estrarre su larga scala quelle risorse dalle miniere richiede in sé enormi quantità di energia. L’idrogeno è un netto spreco di energia (non ci sono “riserve di idrogeno” e il processo di produzione consuma più energia di quella che fornisce il carburante prodotto). La miglior speranza sul lungo periodo è una società basata sulle sorgenti di energia rinnovabili, quali l’energia solare, eolica e idroelettrica. Queste non sono illimitate, ma sono inesauribili. In ogni caso esse, per loro stessa natura, non possono essere usate per sostituire il petrolio nella quantità nella quale è correntemente usato. Una società industriale basata sulle fonti rinnovabili non potrebbe mai usare l’energia ad un tasso pro-capite neppure lontanamente prossimo ai livelli ai quali si sono abituati gli Americani.

 

Possibilità più oscure

Sarebbe grandioso se Easterbrook avesse ragione. Ma cosa accadrebbe se l’esaurimento del petrolio a buon mercato cogliesse la società di sorpresa?

Le implicazioni economiche e politiche sarebbero enormi. Gli Stati Uniti e la popolazione mondiale potrebbero quasi raddoppiare nei prossimi 100 anni, e questa grande popolazione in crescita probabilmente non può essere sostenuta senza abbondanti forniture di petrolio. Sì, l’agricoltura biologica potrebbe nutrire tante persone quante ne nutre attualmente l’agricoltura basata sull’uso del petrolio; ma, come ogni contadino dedito all’agricoltura biologica sa, è necessario un tempo di transizione minimo di cinque anni per liberare pienamente un terreno dalla sua dipendenza dai prodotti chimici. Inoltre, sarebbero necessarie riforme fondiarie e reti di distribuzione locali per sostituire il regime di commercio globale di generi alimentari sul quale fanno ora affidamento la maggior parte delle nazioni.

Durante gli ultimi tre decenni gli Stati Uniti avrebbero dovuto investire pesantemente nello sviluppo di fonti di energia alternative, preferibilmente rinnovabili. Invece, la maggior parte dei dollari assegnabili discrezionalmente della nostra federazione sono andati e ancora vanno al Pentagono. Il budget per l’Anno Fiscale 2001 destina 305 miliardi di dollari per le spese militari e meno di 5 miliardi di dollari per la ricerca e lo sviluppo nel campo dell’energia. A questo punto, il grande investimento dell’America nella potenza militare deve essere considerato principalmente come un investimento nel mantenimento per mezzo della forza del suo “diritto” alla parte del leone nei confronti dell’energia prodotta globalmente da ora in avanti. Questo non promette bene per la pace globale.

Così, cosa potremmo realisticamente aspettarci quando il petrolio comincerà a esaurirsi?

I costi di importazione internazionali del petrolio cresceranno bruscamente, aumentando la competizione globale per le sempre minori quantità provenienti da cinque Paesi Mediorientali e dalla ex-Unione Sovietica. Il debito nazionale crescerà, e l’inflazione probabilmente lo seguirà man mano che il denaro lascerà il Paese per passare ai produttori di petrolio. Il denaro diverrà scarso (anche perché il governo ne stampera di più per pagare i conti energetici d’oltre oceano) mentre i tassi di interesse/credito saliranno. Gli affari andranno a rotoli dovendo pagare costi energetici più elevati. La povertà diventerà pandemica. Le pensioni per la popolazione più anziana saranno in pericolo.

Ovviamente, questi effetti saranno influenzati in qualche modo dalla geografia, come è stato notato dall’analista Graham Zabel (un membro di www.runningonempty.org).

Di tutte le regioni geografiche, l’Europa ha le migliori possibilità di avere successo di fronte alla crisi petrolifera in arrivo. Il consumo di energia pro-capite degli Europei è già un terzo di quello dei Nord Americani. Il loro trasporto pubblico e le loro reti ferroviarie sono molto migliori, e le loro politiche energetiche sono più lungimiranti, forse a causa della loro mancanza di significative risorse nel campo dei combustibili fossili. L’Europa è più vicina alle forniture di gas naturale della Russia, del Medio Oriente, del Nord Africa e del Mediterraneo e l’accesso alle forniture di gas potrebbe dare all’Europa un più lungo periodo cuscinetto rispetto all’America per liberarsi dalla dipendenza dai combustibili fossili. Lì, sarà molto più facile per la gente andare avanti con biciclette e trasporti pubblici di quanto non sarà nell’America suburbana. In Europa, le popolazioni hano smesso di crescere e si stanno in realtà riducendo. La copertura forestale è in espansione. L’asso nella manica dell’America sono la ricchezza e le armi. Ma l’America è assuefatta all’energia e al consumo e si troverà di fronte a un arretramento più violento. Ha anche la popolazione industrializzata in più rapida crescita. [Come Europeo non posso non notare l’eccessivo ottimismo col quale viene dipinta la situazione -- non mi pare che le politiche energetiche siano poi così lungimiranti, né che la popolazione si stia riducendo (a causa di una dissennata politica di non-gestione della immigrazione), né che la copertura forestale di qualità si stia espandendo… Riesco a spiegarmi l’ottimismo di questa sezione solo alla luce di un detto molto noto: “L’erba del vicino è sempre più verde” - N.d.T. ]

Di tutti i continenti, l’Africa sarà il più colpito. Là, le popolazioni cadranno drasticamente e la società potrebbe riconvertirsi ad un tribalismo ad alta tecnologia. Nel frattempo, le multinazionali rimarranno sotto costa, prosciugando il continente del suo petrolio e del suo gas, pagando le tribù regnanti locali per averne protezione. [C’è da dire che l’Africa è anche il continente ove la penetrazione delle tecnologie basate sull’impiego di energia ottenuta dal petrolio o dal gas è minore; potrebbe succedere che, paradossalmente, quello che oggi è uno svantaggio, diventi un vantaggio -- gli Africani potrebbero trovarsi a non dover fare altro che mantenere le proprie abitudini! - N.d.T.]

Anche un Mediorientale dovrebbe essere molto pessimista. La regione è seconda nel mondo per i più alti tassi di crescita della popolazione (dopo l’Africa), ha un gran numero di uomini giovani, istruiti e sottoimpiegati, poche donne istruite, gravi problemi idrici e, a parte il petrolio e il gas, in alcuni casi pochissime risorse naturali. Sfortunatamente, questi problemi non sono così limitati all’Africa e probabilmente si allargheranno ad altre zone (principalmente a causa del petrolio). Le speranze dell’America Latina e dell’Asia si trovano da qualche parte tra quelle dell’Europa e dell’America da una parte e quelle dell’Africa e del Medio Oriente dall’altra, per quanto probabilmente più vicine a questi ultimi.

La visione più disincantante del mondo post-petrolifero viene da Jay Hansen, il moderatore di www.dieoff.org:

La dipendenza dell’agricoltura industriale dai combustibili fossili, la sempre minore fertilità dei terreni e gli effetti di ritorno imposti dalla sempre minore quantità di energia a disposizione costringeranno l’economia a trasferire molti più investimenti ai settori agricolo ed energetico, come parte di un disperato tentativo di mantenere la produzione agricola. Anche le disponibilità economiche del governo dovranno calare in termini reali man mano che frazioni sempre maggiori dell’economia verranno deviate verso il settore delle risorse.

Mentre la qualità delle risorse e la fertilità dei terreni continueranno a crollare, la società sarà costretta a destinare sempre più capitali al settore agricolo e a quello delle risorse, altrimenti la scarsità di cibo, materiali e combustibili ridurrebbero ulteriormente la produzione. È un circolo vizioso, non c’è modo di evitare questi effetti di ritorno. Alla fine, la capacità industriale si ridurrà rapidamente portando con sé i settori dei servizi e dell’agricoltura, che dipendono su quanto fornito dall’industria.

Costretta dalle leggi della termodinamica, la disponibilità delle risorse necessarie a sostenere la vita entrerà in una fase di decadenza permanente e rapida. In meno di 20 anni, il sistema autoregolante del mercato sarà rimasto “senza benzina” e scomparso. Con il sistema basato sul mercato ormai perso, le classi privilegiate dominanti torneranno ai buoni, vecchi mezzi di controlli: uno stato di polizia. Negli Stati Uniti, 200 milioni di armi da fuoco a disposizione dei privati garantiranno che questa condizione politica devolva rapidamente nella ribellione e nell’anarchia. Stiamo usando fino in fondo il nostro petrolio e il nostro gas.

Le fonti rinnovabili non riempiranno il vuoto lasciato dal petrolio e dal gas. La gente morirà tentando di trovare cibo e altre risorse. O le classi dominanti uccideranno alcune persone, chissà quali.

 

Chi lo dirà alla gente?

Allora perché nessuno ci avverte?

I politici non hanno alcun interesse a dire qualcosa a chicchessia. Come Michael Vickerman (Executive Director di Renew Wisconsin, una organizzazione no-profit che promuove la conservazione e le energie alternative) scrive così in un messaggio a www.runningonempy.org: “Di tutti gli argomenti che George W. Bush e Al Gore preferirebbero non discutere durante questo contesto presidenziale, nessuno sta più avanti in graduatoria di quello che riguarda le forniture di energia. Entrambi i candidati comprensibilmente considerano le politiche relative all’energia, in particolare quelle riguardanti i prezzi del petrolio, come sabbie mobili elettorali che possono far affondare un candidato alle elezioni presidenziali più in fretta di quanto uno possa dire Jimmy Carter”. [Provate a ricordare quanto ci hanno detto riguardo alla questione energetica in Italia i nostri candidati alle ultime elezioni politiche… - N.d.T.]

Gli economisti non ci diranno nulla perché essi stessi non comprendono quale ruolo critico l’energia giochi nella società. Per essi, si tratta solo di un’altra risorsa governata dall’onnisciente Mercato; se i prezzi per una data risorsa salgono, comparirà un sostituto. Per gli economisti è il denaro a far girare il mondo.

Che dire dei mezzi di informazione?

Negli Stati Uniti, i maggiori operatori dell’informazione sono G.E. e Westinghouse (con i loro reattori nucleari e i loro affari legati allo smaltimento delle scorie), Time/Warner (con servizi e carbone), e Disney (con il petrolio). Gran parte delle notizie che leggiamo o vediamo in televisione sono preparate da aziende di P.R. più che scoperte dai giornalisti, e di questi tempi è pratica comune, per una azienda di P.R., inviare un servizio video completo pronto per la trasmissione (A-roll) insieme a parti non modificate (B-roll) e ad un testo scritto, così che le stazioni televisive possano assemblare tutti questi materiali come se avessero scoperto la storia da sé. Quindi, aspettarsi che i giornalisti televisivi investighino in modo indipendente su una storia delicata come questa, con così tante implicazioni per gli interessi energetici delle proprie reti e dei propri sponsor, è disperatamente fuori dalla realtà. [Avete mai notato come anche in Italia i telegiornali siano tutti uguali in modo sospetto? - N.d.T.] Ad ogni modo, per ogni geologo indipendente (ad esempio Colin Campbell) che cita la curva di Hubbert, le compagnie petrolifere possono fornire cinque dei propri economisti che insisteranno sul fatto che c’è petrolio a sufficienza per generazioni. Aggiungete a tutto questo la confusa stanchezza del pubblico nei confronti di profezie apocalittiche e millenarie di ogni tipo (incluso il baco del 2000, Y2K). Risultato: nessuno sa, a nessuno interessa.

Allora, che fare? Continuare a lavorare per tutti i traguardi meritevoli dei quali tutti siamo già a conoscenza, compreso il risparmio energetico, l’equità economica e la democrazia dal basso. Ma essendo consapevoli che siamo in un momento favorevole. Cominciare a costruire alleanze che possano aiutare a farci attraversare i tempi duri che ci aspettano. Lascerei l’ultima parola di cauto ottimismo a Colin Campbell, dalla sua lettera al N.Y. Times:

La gente è tentata di accusare le compagnie petrolifere o i Mussulmani per la propria situazione ma, se fossero loro date informazioni corrette, si accorgerebbero presto che non sono stati imbrogliati da nessuno. Potrebbero a quel punto essere all’altezza della situazione, tanto trovando soluzioni da soli quanto dando ai governi mandato per agire. Non stiamo esaurendo il petrolio ma ci troviamo di fronte ad una transizione verso un nuovo mondo nel quale abbondanti disponibilità di energia a basso costo basata sul petrolio non potranno più trainare l’economia. Ci sono molte soluzioni ma tutte hanno lunghi tempi di attuazione. Quanto prima prenderemo il toro per le corna, tanto meglio sarà.

 

Traduzione di Aldo Carpanelli, pubblicata anche su Il sito di Carpanix
La versione originale in inglese è disponibile su
www.oilcrash.com